Emanuela Audisio, la Repubblica 14/11/2013, 14 novembre 2013
MANGIA, DIVENTA RICCO, VAI A CANESTRO COSÌ LA NBA HA ABBANDONATO IL GHETTO
NEW YORK Rabbia, fame, povertà. La benzina dello sport. La chiave che porta al successo. Quel non avere niente che spinge a volere tutto. La fuga dalla miseria. La spiegazione sociale che porta al successo: il plusvalore che nessuno ti può dare. Prendete Le-Bron James, ricca star dell’Nba e dei Miami Heat, un numero uno assoluto. Nato povero, da una madre single, appena sedicenne, a Akron in Ohio. In tanti pensano: per farcela nel basket bisogna essere come LeBron. Contrordine, non è così, non è più vero. Dati alla mano: il proletariato non va più a canestro. Le probabilità di arrivare a giocare nell’Nba sono più alte se si proviene da un quartiere borghese, sia per neri che per bianchi. Quello che fa dire al professor Stephens Davidowitz di Harvard: a contare non sono le radici, ma il codice postale, lo zip-code. Lo stereotipo che la fame porta in alto è rovesciato. Più della metà dei giocatori neri che fanno parte dell’aristocrazia del basket proviene da case e da quartieri decenti e non ha mai abitato in desolation row.
Il censimento del mondo dei canestri porta a un nuovo Dna. È vero che negli anni Ottanta, data di nascita dei più importanti giocatori attuali, il 25% della popolazione nera è nata da una madre sotto i 20 anni e il 60% da una madre non sposata. E dal ’60 al ’90 quasi la metà dei neonati neri ha visto la luce fuori dal matrimonio. Ma per ogni LeBron James c’è stato un Michael Jordan, nato da una coppia medio-borghese, da due genitori di Brooklyn, e un Chris Paul, secondo figlio di un’altra coppia che non se la passava male, a Lewisville, in North Carolina. Kobe Bryant, uno per cui vale sempre la pena pagare il biglietto, si chiama così perché al ristorante i suoi notarono nel menù la carne di Kobe, che non è economica e che certamente non viene servita nella rosticceria del ghetto. I Bryant non abitavano in un quartiere disperato e a sei anni il ragazzo si è trasferito in Italia dove giocava suo padre. Grant Hill, che si è ritirato quest’anno dopo quasi 20 di carriera, è nato a Dallas ed è stato il prototipo del giocatore acculturato e gentile, molto lontano dai fremiti sociali delle periferie. Viene da una famiglia di laureati, suo padre ha studiato storia a Yale e ha giocato nell’Nfl. Shane Battier e Stephen Curry non hanno mai frequentato i quartieri pericolosi se non per qualche iniziativa benefica. Quello che costruisce una mentalità vincente, non è la rabbia sociale, ma la disciplina, la consapevolezza nelle proprie capacità, l’autostima, una buona nutrizione. È quella figura nello specchio che ti dice: abbi cura di te e ce la farai. Le stesse qualità che fanno andare bene nello studio.
E che non aveva Doug Wrenn, nato come LeBron, ma cinque anni prima, da una madre single, in un quartiere derelitto. Anche lui al college si era segnalato come un talento sotto canestro, ma la sua inaffidabilità e il suo brutto carattere non ne ha fatto una star, ma un detenuto. Cacciato da due università, nessuno lo ha scelto, ha vagato per leghe minori, è tornato a vivere con la madre ed è finito in prigione per violenze alla sua ex fidanzata.
L’altro dato, studiato dall’economista Robert Fogel, è che chi mangia meglio cresce meglio.
Anche in statura. La media del maschio americano dal 1900 al 1980 è passata da 1.68 metri a 1.80. E sì i centimetri non passano mai di moda nell’Nba e restano vincenti. Ogni centimetro in più raddoppia la possibilità di farcela nel campionato più famoso del mondo. Nel 1946 quando iniziò la Nba c’era un solo giocatore alto 2.14, nell’80 ce n’erano 16 (tra i quali il mitico Jabbar) e l’anno scorso la cifra era salita a 20. Anche perché è cambiata la demografia: 30 anni fa i giocatori Nba nati fuori dagli Stati Uniti erano appena il 2%, ora sono più del 20%, pattuglia italiana compresa. Le condizioni di vita sono migliorate anche fuori dall’America, per questo nell’Nba sono arrivati i giganti esteri: dal cinese Yao Ming (che si è ritirato due anni fa) allo spagnolo Pau Gasol, al tedesco Dirk Novitzki, al turco Omer Asik, 27 anni, che gioca per gli Houston Rockets. Tutti abbondantemente sopra i due metri.
LeBron James nel maggio scorso quando ha vinto il suo secondo titolo con gli Heat ha detto in tv: «Sono LeBron James. Da Akron, Ohio. Città bassa. Non dovevo nemmeno essere qui». E su Twitter la gente si è arrabbiata. Come può un giovane che ha appena trionfato e che rappresenta il futuro del basket presentarsi come un intruso? Forse aveva ragione. Lui è l’eccezione, non la regola. La rabbia è out. I disperati al canestro non ci arrivano.