Notizie tratte da: Vittorio Feltri, Gennaro Sangiuliano # Una repubblica senza patria # Mondadori Milano 2013 # pp. 294, 19 euro., 13 novembre 2013
Notizie tratte da: Vittorio Feltri, Gennaro Sangiuliano, Una repubblica senza patria, Mondadori Milano 2013, pp
Notizie tratte da: Vittorio Feltri, Gennaro Sangiuliano, Una repubblica senza patria, Mondadori Milano 2013, pp. 294, 19 euro.
(vedi anche libro in gocce in scheda 2256901
e biblioteca in scheda 2256819)
«Patria di tutti, non poté nel passato l’Italia, e non può oggi, essere la patria degli Italiani» (Giuseppe Prezzolini, L’Italia finisce. Ecco quel che resta. Rusconi, 1981).
Per Luigi Barzini e Leo Longanesi l’Italia più che una nazione era una federazione di famiglie, anzi di clan, unica vera istituzione che gli italiani riconoscono.
Patria, dal latino patrius, paterno.
L’enciclopedia Treccani definisce il sostantivo patria come «il territorio abitato da un popolo e al quale ciascuno dei suoi componenti sente di appartenere per nascita, lingua, cultura, storia e tradizioni».
Un’antica moneta, datata fra l’88 e il 90 a.C., coniata dai soci Italiaci, reca la scritta «Italia». È probabilmente la prima traccia di una connotazione geopolitica della Penisola.
«La fusione coi Napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso» (Massimo d’Azeglio).
«In Italia ci si detesta da provincia a provincia, da città a città, da famiglia a famiglia, da individuo a individuo» (il cancelliere von Metternich).
Nel 1861, a unificazione compiuta, più del 70 per cento della popolazione era analfabeta, con punte dell’80 per cento al Sud e del 90 in Sardegna. Dopo vent’anni l’analfabetismo era sceso di soli tre punti (67 per cento).
Negli anni Novanta fu modificata la legge elettorale passando da diritto di voto fondato sulla discriminazione per censo a quello basato sull’analfabetismo: poteva votare solo chi sapeva leggere e scrivere, ovvero tre milioni su trenta.
Tra il 1880 e il 1920 circa nove milioni di italiani emigrarono all’estero (soprattutto verso le Americhe), quasi un terzo della popolazione dell’epoca, la metà di quella meridionale.
Nel 1861 in Italia esistevano 2.521 km di ferrovie, in Francia 4.000 km, in Germani 11 mila, nel Regno Unito 16.666. Nel 1871 in Inghilterra lavorava in agricoltura il 35% della popolazione, in Italia il 70%.
Le prime grandi banche che nascono in Italia sono condizionate dal capitale straniero: nel 1894 la Banca Commerciale Italiana nasce con capitali tedeschi, austriaci e svizzeri; nel 1895 il Credito Italiano nasce con capitali svizzeri.
Il primo presidente della Confederazione italiana dell’industria, nata nel 1906, fu un francese, Louise Bonnnefon-Craponne.
Giovanni Papini in La cultura italiana: «La generazione che ha seguito quella del Risorgimento – quella che si potrebbe chiamare, con non celato sarcasmo, dei figli dei liberatori – è stata inferiore al compito suo. Se è riuscita ad organizzare una enorme burocrazia (del resto indolente e indisciplinata) – a costruire delle ferrovie, scomodissime e insufficienti – a riempire gli archivi di leggi dimenticate e di regolamenti non osservati – e a risollevare la vita economica, non è riuscita però a dare alla vita della nazione quelle attitudini e quegli ideali che trovano la loro espressione in una grande cultura».
Tra i motti fascisti: «Ardisco e non ordisco», «Noi tireremo dritti», «Il fascista non usa l’ascensore», «Credere, obbedire, combattere».
Alle 5.10 di giovedì 9 settembre 1943 partì il corteo di quattro Alfa 2800 che portarono fuori Roma il re Emanuele III, la regina Elena, l’aiutante di campo del sovrano, il generale Puntoni, il capo del governo Badoglio, il nipote, il tenente colonnello Valenzano, il ministro della Real Casa Pietro d’Acquarone. Un viaggio che li portò a Ortona e, da qui, a bordo della corvetta Baionetta, a Brindisi già in mani inglesi (Badoglio si imbarcò per primo per Pescara). Roma rimase così abbandonata ai tedeschi. Il giorno precedente alla 19.42, dai microfoni dell’Eiar, Badoglio aveva confermato con un proclama la notizia dell’armistizio con gli anglo-americani.
Badoglio fuggì da Roma senza portare con sé neanche una copia dell’armistizio, e fu costretto a richiederne una velina agli Alleati una volta giunto a Brindisi. Ai colloqui con i rappresentanti americani disse di non conoscere le clausole.
L’armistizio era stato firmato il 3 settembre a Cassabile, frazione a sud di Siracusa. Per l’Italia era presente il generale Giuseppe Castellano, siciliano, massone e uomo di fiducia di Badoglio. Per parte alleata, il generale Walter Bedell Smith, futuro direttore della Cia. Le immagini ritraggono Castellano in abiti borghesi, blazer e fazzoletto nel taschino. Accanto a lui un funzionario del ministero degli Esteri, Franco Montanari, e un Vito Guarrasi, giovanissimo avvocato palermitano spesso accostato alla mafia, che «per oltre mezzo secolo sarà evocato quale possibile spiegazione per ogni mistero» (Alfio Caruso, Da cosa nasce cosa, Longanesi 2012).
Quando il 7 settembre due ufficiali americani, in tutta segretezza, giunsero a Roma per concordare i termini di un’operazione militare per difendere Roma, trovarono il comandante della difesa della capitale, il generale Carboni, a una festa; Badoglio che dormiva (aveva dato disposizioni di non essere disturbato), il generale Ambrosio a Torino per un trasloco: Roatta a cena. Furono intrattenuti da un colonnello che non conosceva una parola d’inglese e che pensò bene di portarli a cena.
L’armistizio raccontato da Curzio Malaprte in La pelle: «Tutti ufficiali e soldati facevano a gara a chi buttava più “eroicamente” le armi e le bandiere nel fango… Finita la festa, ci ordinammo in colonna e così senz’armi, senza bandiere, ci avviammo verso i nuovi campi di battaglia, per andare a vincere con gli Alleati questa guerra che avevamo già persa con i tedeschi… È certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra sono buoni tutti, non tutti sono capaci di perderla».
Palmiro Togliatti, segretario del Pci dal 1927 e del Comintern, rientra in Italia all’esilio in Russia il 27 marzo 1944. I servizi segreti sovietici lo avevano scortato da Mosca a Baku, poi a Teheran, al Cairo, ad Algeri, fino a Napoli, dove era sbarcato su una nave mercantile. Prima di partire, la notte del 3 marzo, incontrò Stalin che, stando ai verbali del Comintern, gli spiegò che l’Italia in virtù degli accordi con gli anglo-americani sarebbe ricaduta nella sfera d’influenza alleata, quindi per il momento andava accantonato qualsiasi progetto di insurrezione armata. Da qui, un mese dopo, la «svolta di Salerno», con la quale il Pci si inserì nella dinamica costituzionale e democratica, superando la forma di partito rivoluzionario, e per poi partecipare al primo governo post fascista.
Togliatti, che durante gli anni del Fascismo si faceva chiamare Ercole Ercoli o Mario Correnti.
Iscritti al Pci:
• il 25 luglio 1943: 6.000
• all’arrivo di Togliatti in Italia: 40.000
• ottobre 1944: 70.000
• 1945: 1.700.000
La prima volta che Togliatti incontrò Maurizio Valenzi a Napoli, allora militante del Pci, poi senatore, eurodeputato e sindaco di Napoli, gli ordinò: «Scrivimi una tua biografia». Spiegherà poi Valenzi: «Era un sistema diffuso nella burocrazia poliziesca stalinista. Tu racconti la tua vita, specialmente la tua militanza, e tre mesi dopo qualche altro dirigente ti chiede una seconda biografia, e più tardi un’altra ancora. Se la riscrivi uguale, magari pensa che hai paura di contraddirti o hai qualcosa da nascondere. Se cambi, setaccia ogni parola alla ricerca delle contraddizioni con la prima versione».
Appena tornato in Italia Togliatti fondò Rinascita, rivista di trentadue pagine di cui rimase direttore per vent’anni. «Il comunista deve essere capace di usare la penna come una vera arma».
«Anche stanotte dormito poco, da mezzanotte alle quattro. Fisso è il pensiero alle sorti dell’Italia: il fascismo mi appare già un passato, un ciclo chiuso, e io non assaporo il piacere della vendetta; ma l’Italia è un Paese doloroso» (Benedetto Croce sul suo diario, dalla sua Villa Tritone a Salerno, settembre 1943).
«Il senatore Croce è un’ombra. Un mistero, qualcosa che sta fra il Santo Padre, la signora direttrice, l’oracolo di Delfi e il commissario di Polizia… Muovere qualche critica al senatore equivale a dir male della Libertà…» (Leo Longanesi).
Benedetto Croce, odiato e temuto da Togliatti, che lo attaccò ripetutamente attraverso le pagine di Rinascita e lo definì «solo un’ombra di un passato molto lontano!».
«Le carriere comuniste avvengono con il metodo della cooptazione, si sale nella struttura per chiamata dall’alto, quando si ha la fortuna di essere individuati e adottati da un capo. Il giovane Giorgio Napolitano, con i suoi modi borghesi, il suo ben vestire, le parole misurate, piace a molti, a Togliatti, ad Amendola e a Salvatore Cacciapuoti, un duro e scontroso operaio del silurificio di Baia, comunista della prima ora e segretario della federazione Pci di Napoli. È proprio lui a proporre l’assunzione del ventitreenne Giorgio come funzionario di partito, affidandogli la responsabilità del settore “lavoro di massa”» (Sangiuliano).
Napolitano, detto dai suoi compagni «signurino» per la provenienza borghese.
Altro compito del giovane Napolitano era quello di assistente aggiunto della coppia Togliatti-Iotti (primo segretario era Massimo Caprara). Poi Napolitano diventerà segretario di Amendola, nel 1951 segretario della federazione di Caserta e nel 1953, a ventotto anni, deputato.
La volta che Napolitano fu denunciato per oltraggio a pubblico ufficiale e riunione senza preavviso. Era sceso in piazza a Caserta, la mattina del 29 giugno 1955, insieme a oltre cinquecento braccianti che protestano per la riforma agraria davanti alla sede dell’Anpi. Scoppiarono tafferugli, con cariche e ferite. Napolitano poi si presentò in questura accusando il questore di «aver fatto scendere in piazza funzionari irresponsabili». Da qui la denuncia, inviata a Montecitorio e respinta dalla giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera. A richiedere di rigettare l’incriminazione fu il deputato democristiano Carlo Scarascia Mugnozza.
Nell’agosto 1942 Giorgio Bocca pubblica sulla prima pagina de La Provincia granda un lungo articolo intitolato “I protocolli dei Savi anziani di Sion, parlando di un complotto globale degli ebrei per garantirsi il dominio sul mondo. Bocca si richiama ai Protocolli, un falso documentale prodotto dalla polizia zarista ai primi del Novecento. L’8 settembre Bocca diventa partigiano.
Il 24 settembre 1942 il settimanale Roma Fascista pubblica un articolo a firma Eugenio Scalfari: «Gli imperi moderni quali noi li concepiamo – scrive Scalfari – sono basati sul cardine “razza”, escludendo peraltro l’estensione della cittadinanza da parte dello stato nucleo alle altre genti».
Dario Fo si arruolò come volontario nella Rsi, nel battaglione A. Mazzarini con il compito di trasportare bombe. Fo ha negato a lungo questo suo passato, poi messo alle strette da documenti e foto che lo ritraggono in divisa, ha ammesso giustificandosi con la giovane età e con la necessità di sfuggire alla fucilazione per i renitenti alla leva.
Personaggi noti che hanno ammesso il loro passato nella Repubblica di Salò: Giorgio Albertazzi, Tino Carraro, Walter Chiari, Enrico Maria Salerno, Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello ecc.
Giovannino Guareschi, che per le elezioni del 18 aprile 1948 aveva coniato sul Candido lo slogan: «Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no».
L’attentato a Togliatti. La mattina del 14 luglio 1948 alle 11.20 Togliatti esce dalla Camera insieme a Nilde Iotti, ventottenne deputata di Reggio Emilia, con cui ha una relazione molto chiacchierata. I due vogliono andare a prendere un gelato da Giolitti, ma dopo pochi metri su via Uffici del Vicario si avvicina un giovane che con una Smith&Wesson calibro 38 colpisce Togliatti alla nuca, all’addome e al petto. «Mi chiamo Antonio Padellante», dice l’attentatore subito dopo essere stato fermato da un carabiniere. Padellante è un simpatizzante del blocco liberale e qualunquista, si dichiara anticomunista e nazionalista e afferma di aver fatto tutto da solo (le indagini poi confermeranno che si tratta di un gesto isolato). Togliatti arriva al Policlinico Umberto I in condizioni disperate. Ad assisterlo una squadra di dodici infermieri, tutti iscritti al Pci. Fuori dalla stanza uomini del servizio d’ordine del partito, guidati da Giulio Seniga. Al capezzale si alternano la moglie Rita Montagnana e l’amante Nilde Iotti. Con un’ora e mezza di ritardo Rete Azzurra, uno dei due canali radiofonici della Rai, diffonde la notizia dell’attentato. Piazza Montecitorio, piazza San Silvestro, piazza Venezia, piazza Esedra si riempiono di militanti comunisti, scoppiano tafferugli e scontri con la polizia. Si diffonde la notizia che Togliatti è morto. La situazione più critica al Nord. A Torino vengono occupate fabbriche, la sede della Stampa (che non uscirà per due giorni), operai armati sequestrano nel suo ufficio il presidente della Fiat Vittorio Valletta. Stessa situazione a Genova e a Milano. Viene proclamato lo sciopero generale. L’Italia è sull’orlo di una guerra civile. Ci sono morti e feriti tra le forze dell’ordine e militanti comunisti. Il governo De Gasperi mette in preallarme le forze armate. Ma il 15 luglio succedono due cose: alla mattina il leader della Cgil Giuseppe De Vittorio incontra De Gasperi al Viminale e assicura che gli scioperi spontanei indetti dopo l’attentato finiranno al più presto; al pomeriggio dalla Francia arriva la notizia che Gino Bartali compiendo una straordinaria rimonta al Tour de France ha conquistato la maglia gialla. A frenare i comunisti si aggiunge la scomunica di Stalin, contrario a una sommossa armata in Italia, che manda un telegramma: «Il comitato centrale del Partito bolscevico è contristato dal fatto che gli amici del compagno Togliatti non siano riusciti a difenderlo» (come dire: non sapete proteggere il vostro capo, figuriamoci se riuscirete a fare la rivoluzione). Intanto le condizioni di Togliatti migliorano, l’operazione è riuscita anche se con una complicazione ai polmoni. «Che fesso, m’ha sparato quattro colpi e non m’ha finito» le prime parole quando si risveglia.
L’Italia è uscita dalla guerra con una produzione industriale al 29 per cento rispetto al 1940 e tre milioni di disoccupati su una popolazione totale di 45 milioni. Dalla relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria: il 21 per cento della popolazione vive in soffitte o baracche, classificate sotto la dicitura abitazioni inadeguate; solo il 54 per cento possiede scarpe; il 65 per cento consuma carne solo occasionalmente, ecc.
Nei cinque anni dal 1948 al 1953 il reddito nazionale sale da 6.454 a 11.334 miliardi, la produzione industriale passa da 2.427 a 4.048 miliardi, le attività del terziario da 1.640 a 3.416. Decisiva è la riorganizzazione dell’industria siderurgica voluta da Oscar Sinigaglia (piano approvato nel 1948). Nello stesso quinquennio la produzione di auto passa da 44.425 a 143.715 unità.
Nel 1956 la Piaggio produce il milionesimo esemplare di Vespa.
Nel 1957 ci sono 479 chilometri di autostrade, nel 1960 1.169.
Dal 1951 al 1957 l’Italia passa da 18.500 a 370.000 frigoriferi prodotti. Nascono o emergono aziende come la Ignis, la Candy e la Zanussi. Nel 1967 l’Italia diventa il terzo produttore mondiale di frigoriferi dopo Stati Uniti e Giappone.
Nel primo anno della televisione in Italia, il 1954, gli abbonati sono 88 mila, poi 673.080 nel 1957, 2.123.000 nel 1960 e 4.284.000 nel 1963.
«Prima vedevamo la vita come qualcosa di teso e guerreggiato, adesso la vediamo invece come uno spettacolo nelle grandi linee prevedibile e rassicurante» (Italo Calvino, Tempi moderni luglio 1961).
Tra il 1958 e il 1963 il Pil italiano cresce del 138 per cento.
Nel 1960 una giuria di economisti interpella dal Financial Times assegna alla lira l’Oscar della moneta più salda tra quelle occidentali (Star currency of the year).
Lo storico Valerio Castronovo: «Di fatto l’incidenza delle imposte dirette sul reddito e sul patrimonio, al totale delle entrate tributarie, non superò il 24 per cento fra il 1949 e il 1963».
«Una domenica del ’50 fui convocato da Leo Longanesi nella sua casa editrice a Milano. L’occasione era solenne: l’annuncio a me, a Giovanni Ansaldo, a Elena Canino e a Henry Furst della nascita del “Borghese”. Si lanciò nella descrizione del prototipo del borghese di cui dovevamo assumere la difesa: nascita, educazione, modi, costumi, ideali, valori. “Ma questo borghese” obiettò dubbiosa la Canino “quando è esistito?”. “Mai” rispose Leo. “Dobbiamo inventarcelo”. Nacque così alla Longanesi la battaglia più anticonformista di quegli anni» (Indro Montanelli).
I primi accenni delle contestazioni studentesche e di quello che sarà il Sessantotto in Italia si hanno all’univeristà di Trento, nell’autunno del ’67. L’università di Trento era stata fondata nel 1962. Ispirata dalla sinistra democristiana, è la prima università italiana ad avere una facoltà di Sociologia. Tra gli studenti di Sociologia a Trento c’è Renato Curcio, futuro fondatore e capo delle Brigate Rosse, tra i professori c’è Romano Prodi, che insegna Economia.
Scriverà poi Giorgio Bocca che il padre del terrorismo rosso è il cattocomunismo perché «è cattolico e comunista il bisogno di risposte totali e definitive, il rifiuto del dubbio, la sostituzione del dovere ragionato con la fede, il bisogno di chiesa, di autorità, di dogma» (Il terrorismo italiano 1970-1978, Rizzoli, 1978).
All’occupazione di Trento segue quella della Cattolica di Milano, il 18 novembre 1967. Leader dei contestatori è Mario Capanna. Dopo dieci giorni (28 novembre 1967) tocca a Torino e, nel febbraio 1968 a Roma. Qui gli scontri più duri, con la battaglia di Valle Giulia (quaranta dei agenti e un centinaio di studenti feriti). «Il cantautore Paolo Pietrangeli compine la canzone omonima e per almeno un decennio, soprattutto quelli che non c’erano ne parleranno come una sorta di assalto al Palazzo d’inverno italiano. In verità, a sostenere lo scontro più duro con i poliziotti sono gli studenti del Fuan e quelli di Avanguardia nazionale, due organizzazioni di destra, in una fase in cui il movimento era unitario» (Sangiuliano).
Pier Paolo Pasolini, che su Valle Giulia scrive la poesia Il Pci ai giovani, in cui si schiera dalla parte dei poliziotti celerini: «Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come credo si dica ancora nel linguaggio delle università) il culo. Io no, amici. Siete paurosi, incerti, disperati, (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli dei poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano».
L’11 marzo 1969 alla Statale di Milano sono in corso gli esami di Diritto privato. Il giovane professore Piero Trimarchi, trattiene lo statino a una studentessa che risulta impreparata (da qualche tempo gli studenti hanno imposto la prassi della restituzione per consentire al bocciato di ripetere l’esame alla sessione successiva). Il professore viene sequestrato per quattro ore nell’aula e sottoposto a una sorta di processo. Alcuni giorni dopo Trimarchi è insultato e preso a sputi fuori dall’università. L’inchiesta della magistratura porta a tredici arresti. Dal Corriere della Sera del 10 giugno 1969: «Bussando alle porte di alcuni dei ricercati, gli agenti si sono trovati davanti austeri maggiordomi che chiedevano se era proprio il caso di disturbare, a quell’ora, il “signorino”».
Nel ’68 si sono perse 96 milioni di ore di lavoro, a fine ’69 le ore saranno 520 milioni.
«All’epoca in cui ero al Corriere d’Informazione, una mattina sono andato per un servizio a uno stabilimento nei dintorni di Milano. C’era una scritta sul muro dal tipico tono sindacale e una volantino nel quale gli studenti celebravano l’alleanza con gli operai e il loro ruolo di avanguardia del popolo. Va detto che non avevano nemmeno torto. All’epoca non avevano ancora ammazzato, ma più si aveva la sensazione che le Brigare Rosse crescessero, più una certa simpatia collettiva nei loro confronti si faceva strada» (Feltri).
«Per comprendere il clima che avvolgeva quel periodo, racconterò del giorno in cui fu dato l’annuncio del rapimento di Aldo Moro in un cinema di Bergamo. Uno dei responsabili del cinema interruppe tutto e spiegò che c’era appena stata un’azione terroristica, con la quale le Br avevano rapito il presidente della Dc e ucciso i cinque uomini della scorta. La platea ascoltò e reagì con un’ovazione. Proprio così, un’ovazione» (Feltri).
Il 13 giugno 1971 l’Espresso pubblica a pagina 8 il seguente appello: «Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio, Carlo Biotti, lo ha inquinato con i meschini calcoli di un carrierismo senile. Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele Lener, vi ha nascosto le trame di una odiosa coercizione.
Oggi come ieri – quando denunciammo apertamente l’arbitrio calunnioso di un questore, Michele Guida, e l’indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica, nelle persone di Giovanni Caizzi e Carlo Amati – il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a tale fiducia senza la quale morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione. Una ricusazione di coscienza – che non ha minor legittimità di quella di diritto – rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni. Noi chiediamo l’allontanamento dai loro uffici di coloro che abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini». Seguono 757 firme, tra cui: Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, tinto Brass, Marco Bellocchio, Carlo Rossella, Dario Fo, Norberto Bobbio, Alberto Moravia, Federico Fellini, Umberto Eco, Giulio Einaudi, Pier Paolo Pasolini, Renato Guttuso.
Vittorio Feltri, assunti nel 1974 dal Corriere per errore: «Pensavano fossi socialista».