Michele Dalai, l’Unità 13/11/2013, 13 novembre 2013
ELOGIO DELLO SPACCONE
ICONA GAY. ICONA ETERO. ICONA METROSESSUALE. ICONA DEGLI ANIMALI DOMESTICI SOTTO I DIECI CHILOGRAMMI. ICONA GERONTOSESSUALE. ICONA DI TUTTI E PER TUTTI, PROPRIO TUTTI QUANTI (O QUASI, LADDOVE IL QUASI SONO I TIFOSI DEL BARCELLONA E UNO SVIZZERO ATTEMPATO CHE GOVERNA IL CALCIO MONDIALE). Cristiano Ronaldo dos Santos Aveiro è nato povero a Funchal, sull’isola di Madeira, destro naturale dal sinistro educato, fortissimo di testa (è probabile che sia nato proprio così, fin dal primo vagito funambolo e forte di testa), ha vissuto fin dagli esordi una parabola diversa da quella di Messi. Perché parlare di lui senza far menzione del suo duellante è impossibile e forse disonesto. Essere Cristiano Ronaldo significa non essere argentino-ma-catalano, non essere particolarmente benvoluto dalla Fifa.
Sfuggito per buona sorte ai laboratori del calcio giovanile (quelli che, per intenderci, allungano i giocatori corti), è atterrato allo Sporting Lisbona e fin dalla prima sgambata in maglia biancoverde la strada si è fatta in discesa. Ad Antonio Cassano chiesero cosa avesse provato dopo quel gol all’Inter e lui rispose che aveva capito che in quel momento esatto era finita la povertà. Cristiano Ronaldo deve aver provato la stessa sensazione quando il Manchester United formulò un’offerta a molti zeri per il suo cartellino. Un giovane talentuoso e ricco, sfrontato e destinato a sopravvivere al setaccio del rude football inglese che a suon di pedate negli stinchi, pernacchie e fischi per le plateali simulazioni lo ha trasformato in un calciatore unico. Potente, rapido, essenziale quando serve. Dopo gli anni da discolo strappamutande nei club di Manchester che gli hanno fruttato quel Pallone d’Oro che da tempo giace impolverato e troppo poco ammirato, Cristiano si è trasferito al Real Madrid, sua destinazione naturale e momento in cui lo incrociamo.
Il portoghese è un individualista, un egotico senza possibilità di pentimento e nel suo caso risulta complicato non considerarla una dote. Il conteggio dei peccati capitali si complica quando dal mondo delle comuni pecorelle smarrite si passa al girone dei calciatori. Prendi Cristiano Ronaldo, appunto. Nel suo caso i peccati si riducono a sei, perché come si potrebbe punirlo per quella superbia che lo ha trasformato in meraviglia pura?
Ronaldo segna caterve di gol, esulta composto e sornione, sfotte avversari e tifoserie senza mai spettinarsi. Tempo fa i tifosi del Maiorca intonarono per lunghi, interminabili minuti il coro Cristiano Ronaldo es una barbie. Credete che abbia accusato il colpo? Niente affatto. Ha giocato divinamente, al solito, e li ha rimbrottati annoiato, portando la mano all’orecchio come se non sentisse bene.
Nel corso dell’ultimo clasico – così gli spagnoli chiamano affettuosamente la partita tra Barcellona e Real Madrid, scontro (collisione più che altro) tra stili di vita, di gioco diametralmente opposti, un tempo drammatico confronto tra castigliani e catalani, centralisti e indipendentisti – della stagione 2011/2012, partita tesa in cui il Real si giocava la possibilità di staccare definitivamente i rivali di sempre e conquistare la Liga in ragionevole anticipo, Ronaldo ha firmato la sua dichiarazione di guerra educata al Barcellona.
Non un conflitto cruento come quello che combatteva Mourinho (un tempo grande amico e oggi semplice conoscente in una parabola abbastanza consueta per Cristiano Ronaldo, navigatore in solitaria), e che accendeva di folle rabbia gli altri compagni di squadra non spagnoli. Piuttosto la dimostrazione pratica della più eclatante force tranquille del calcio contemporaneo: nel momento degli eroi, quello in cui la pressione del Barcellona rischiava di vanificare tutti gli sforzi fatti dai blancos e il pareggio per 1 a 1 pareva non reggere più, Cristiano Ronaldo ha improvvisato un’accelerazione delle sue, ha schiantato la difesa avversaria e ha tirato in porta con la precisione tignosa di cui è capace solo lui.
Dopo ha proseguito la sua corsa verso la bandierina del calcio d’angolo e rivolto ai 95.000 culé attoniti e feriti che solo fino a un momento prima lo insultavano con quante energie avevano in corpo ha detto: calma, calma, que aquì estoy yo, accompagnando le parole con un gesto lento e ripetuto delle mani, quello che si fa per calmare (appunto) chi si agita troppo. Un doppio evidente significato in una semplice esortazione: calmi voi, miei spaventati compagni di squadra, ma calmi soprattutto voi, spocchiosi tifosi blaugrana. Calmi che qui ci sono io, tornate a sedervi in ordine e senza panico. Una cosa simile l’aveva fatta un’altra bandiera del madrilismo più acceso, quel Raul che però del Madrid è stato capitano e anima dal primo all’ultimo giorno della sua lunghissima permanenza. Ronaldo è diverso, difficile identificarlo fino in fondo con colori sociali delle squadre in cui gioca, è spudorato e deciso nel suo isolamento dalla squadra (e non dallo spirito di squadra) e attento alle proprie esternazioni come il più scafato dei politici di professione. In questo, un giovane anziano.
Un giovane anziano capace di grande diplomazia. Alla domanda se avesse mai pensato di giocare con Messi, lo scaltro Ronaldo ha risposto che sì, ci ha pensato, ma al Real Madrid.
Per carità, la storia delle due squadre è fatta di trasferimenti clamorosi e sgarri terribili, ma per come stanno le cose ora, per la gentile ma solida antipatia tra i culé e il loro avversario più forte, dubitiamo che possa accadere la sublime mostruosità di vedere quei due nella stessa squadra. Magari a fine carriera, o in una partita di beneficenza, magari con un po’ di pancia e parecchi capelli in meno: Messi, perché Cristiano Ronaldo è un’icona.
L’Icona, quella che pur giocando nella squadra che da sempre incarna il potere per il potere riesce a trasformarsi in un paladino della lotta all’anziano Blatter e alle sue intemperanze. Blatter considera Messi un figlio e Cristiano Ronaldo un montato? E sia, senza volerlo ci ha liberato di un enorme peso, quello di dover trovare un motivo razionale alla passione per il calciatore di Funchal.
Non più e non solo il calciatore più forte del mondo ma anche il calciatore che stava antipatico al dirigente più antipatico (per tacere dell’inadeguatezza al ruolo) della storia del calcio mondiale. Non è poco, se ci pensate bene.
Poi, resta il sospetto fondato che il ragazzo sia anche simpatico, ma non ditelo a nessuno.
m.dalai@addeditore.it