Gabriele Romagnoli, Vanity Fair 13/11/2013, 13 novembre 2013
IL DELICATO MISTERO DELLA CIUPERVECCA
LA REGOLA SAREBBE: se vai a vedere uno spettacolo di magia vuoi, per una sera, tornare bambino e lasciarti stupire come quando non conoscevi la vita e tutto ti appariva straordinario. Invece sono entrato in un teatro a Broadway con tutto il mio carico di esperienze e convinzioni per ridiventare grande, ammettere che tutto quel che avevo imparato poteva essere buttato e riscritto, che niente è definitivo, tutto possibile o, come direbbero loro «il mistero è qualcosa di delicato». Loro sono Derek DelGaudio ed Helder Guimarães, due maghi filosofi che si esibiscono in coppia, per settanta minuti di pura gioia intellettuale chiamati Nothing To Hide, niente da nascondere.
Ci sono persone a cui debbo eterna gratitudine: quelli che, senza conoscermi né incontrarmi, hanno accarezzato la mia solitudine, mi hanno divertito, fatto pensare, meravigliato, commosso, dischiuso porte oltre le porte. Per dire a caso: John Steinbeck, Leonard Cohen, Friedrich Nietzsche, René Magritte, Blue Man Group, Totò. E questi due: DelGaudio e Guimarães. Uno è americano, figlio di una coppia lesbo che si separò malamente. La madre rimasta si rifugiò nell’alcol, lui bambino nella magia. L’altro è portoghese, ha sempre desiderato stupire, studiando illusionismo come fosse ingegneria. Uno ci mette idee e follia, l’altro tecnica e raziocinio. Insieme fanno arte. C’è chi è convinto che l’arte sia una rappresentazione esplosiva del sé, una performance per i commenti dei giornali. Francamente, miei cari: di quella, chi se ne infischia. Se son capaci tutti, non è capace nessuno. Prova invece a fare quel che fa il Duo Meraviglia.
«Il mistero è qualcosa di delicato». Guimarães piega una carta (fanno solo giochi di carte) e la mette sotto un bicchiere capovolto. Poi dà il mazzo a uno spettatore, ci chiacchiera mentre quello mischia. Gli fa compiere una serie di mosse per arrivare alla scelta. Estrae la caria designata, la mostra. Solleva il bicchiere e quella ripiegata sotto è la gemella: un altro re di cuori. Applausi. Finito. Sale sul palco DelGaudio. Recita le stesse identiche parole in tono diverso, fa gli stessi gesti, ma quel che prima era serio ora diventa comico. Un nuovo spettatore mischia, muove, sceglie. Gli affida un otto di picche. L’altra carta è sempre sotto il bicchiere. Ma per un «delicato mistero» ciò che prima era un re di cuori è diventata la gemella dell’otto di picche. Adesso sì, applausi. Perché il numero solitario sarebbe stato prestidigitazione, raddoppiato è qualcosa di diverso. Viene a dirti: credi di aver capito? Ripensaci. Quando sei convinto di essere arrivato in fondo, ricomincia. Riparti, rimettiti in discussione, rinnamorati, rinasci. Fai qualunque cosa ma non morire nella certezza talebana di aver capito, di essere esistito. Da un certo punto in avanti smettiamo di guardare, imparare, provare. Da lì in poi la nostra esistenza diventa un preconcetto. Diciamo cose già dette, esprimiamo opinioni preconfezionate, compriamo pacchetti. E questo ci rassicura. La sicurezza, la cosa più sopravvalutata, anche se c’è chi è disposto a barattarla con la libertà. La sicurezza che la porta sia chiusa, le chiavi nella tasca, tutto sotto controllo. Sicuro? Ripensaci. Questo è il gioco della magia, della filosofia, della vita.
Il numero più divertente, scombinato e profondo di DelGaudio e Guimarães comincia con un racconto. Loro due in vacanza in Venezuela che, dietro un cespuglio, scorgono un rarissimo esemplare di «ciupervecca». Tentano di fotografarla per dimostrarne l’esistenza, ma quella scappa. Resta per terra uno sterco, ora essiccato, che mostrano al pubblico perplesso. Vedete? È di ciupervecca. Non ci credete? A quel punto Guimarães prende una scatola di sigari vuota. Fa controllare che lo sia, DelGaudio fa scegliere in modo complicato tre carte a tre spettatori. Le mette nella scatola. Chiude con un lucchetto. Viene designato un quarto spettatore che ha il compito di uscire dalla sala e nascondere la scatola. Mentre è fuori, DelGaudio legge una ridicola poesia su un cane di nome Bo. Dove vanno a parare? Il tizio torna dopo cinque minuti. Guimarães tira una corda. Due secondi di buio. DelGaudio ha in mano la scatola. Aprono. Ci sono le tre carte. Ci scrivono sopra, ci appiccicano un adesivo, le strappano di lato. Fanno una foto dello spettatore con le tre carte così conciate. Rimettono tutto dentro, richiudono. Corda, due secondi di buio. Dicono allo spettatore di andare a riprendere la scatola laddove l’aveva nascosta. Quello va. DelGaudio finisce la poesia sul cane Bo. Altri cinque minuti. Il tizio riappare. Dice che la scatola era esattamente dove l’aveva lasciata. Aprono. Le carte sono strappate, scritte, con l’adesivo. C’è la foto dello spettatore che le tiene in mano. Applausi. Grazie. A questo punto Guimarães si mette la mano in tasca. Estrae quel pezzo di plastica che aveva mostrato tempo prima, lo avvicina al pubblico e domanda: «Adesso ci credete che questo è sterco di ciupervecca?».
Noi abbiamo l’iPad, abbiamo il 3D, la nostra quotidianità è un miracolo continuo. Altroché delicati misteri. Abbiamo creduto in varie divinità, in Barack Obama, in Papa Francesco. Altroché ciupervecca. Sicuri? Provate a ripensarci.