Fabio Tonacci, la Repubblica 13/11/2013, 13 novembre 2013
SHALABAYEVA, ULTIMO GIALLO CHI FALSIFICÒ IL PASSAPORTO?
C’È UNA fotografia di una bambina di sei anni – ritoccata goffamente con Photoshop per fabbricare un documento falso – a testimoniare quanto sia stata decisiva la “mano” italiana nella deportazione di Alma Shalabayeva e della piccola Alua, moglie e figlia del dissidente kazako Ablyazov. E con quanta fretta, tra il 28 e il 31 maggio, sono stati calpestati diritti umani e procedure.
PERCHÉ una perizia, depositata in procura, tutto questo racconta, riaprendo con prepotenza il caso.
Bisogna tornare al 31 maggio per riannodare qualche filo. Quella mattina le cose si mettono subito bene per i diplomatici kazaki che stanno gestendo la partita. Intorno alle 11 il giudice di pace Stefania Lavore, dopo aver valutato i documenti in suo possesso, convalida il trattenimento di Alma nel Cie di Ponte Galeria, primo passo per la successiva espulsione. «È stata ingannata dalla Polizia», dirà poi nella sua relazione l’ispettore mandato dal ministero della Giustizia, Mario Bresciano, presidente del Tribunale di Roma. «Il passaporto kazako della donna, che la Questura aveva avuto già il 30 maggio e che ne avrebbe consentito l’allontanamento volontario, non è stato consegnato in tempo per l’udienza ».
Però, per riportare la moglie di Ablyazov ad Astana e consegnarla nelle mani del dittatore Nazarbayev, manca ancora un’ultima carta: un documento che attesti l’identità della figlia. «Non è un dettaglio — spiegano i legali della famiglia del dissidente — senza quello, Alua per legge non poteva essere rimpatriata. E senza di lei, Alma sarebbe rimasta in Italia ». Nessun funzionario di polizia, nemmeno il più zelante, può separare madre e figlia in un procedimento di espulsione.
Per l’ambasciatore Andrian Yemelessov, che in quei giorni è di casa al Dipartimento di Pubblica Sicurezza, è un problema: l’intera operazione può andare a monte. Negli archivi del ministero kazako infatti Alua non risulta, non c’è, perché è nata a Londra.
Succede qualcosa, e dopo poche ore, i funzionari della Questura di Roma si ritrovano sul tavolo un documento spuntato dal nulla: il certificato di ritorno numero 0007492, intestato ad Alua Ablyazova «cittadina della Repubblica del Kazakhstan », valido solo per un giorno, fino al primo giugno. Con tanto di foto a colori della bambina e timbro kazako. Ora c’è tutto. Con quello, Alua può essere espulsa. E con lei la madre, che a quel punto — siamo a ridosso del volo già programmato da Ciampino — non può fare più niente.
Ma la mano dei “nostri” ha lasciato delle tracce, in quel certificato. Che già a una prima occhiata doveva far sollevare qualche sopracciglio: attesta falsamente (nella parte tradotta in inglese) che Alua è nata in Italia il 7 febbraio 2007. Ma è la foto a parlare, molto di più. Perché — stando alla perizia che il legale Astolfo di Amato, difensore di Madina, una delle figlie di Ablyazov, ha commissionato a un esperto di grafica — è copiata, con uno scanner, direttamente dal passaporto centrafricano di Alma Shalabayeva, nelle cui pagine finali c’era la foto della figlia Alua. Proprio il passaporto trovato la sera del blitz nella villa di Casal Palocco, custodito dalla polizia e messo sotto sequestro. Chi lo ha dato ai kazaki? E perché?
Scrive il perito, Fabio Pisterzi: «Le foto di Alua sui due documenti derivano dallo stesso scatto. Quella sul certificato di ritorno però è ritoccata: una parte del colore della pelle appare uniforme in modo anomalo sotto il mento. Un effetto del genere può essere effetto di un’operazione di “cleaning” con Photoshop. Si nota che la zona ritoccata è esattamente quella in cui c’era il timbro nel passaporto centrafricano». La foto, dunque, è manipolata. In modo frettoloso, con un lavoro che non deve essere durato più di un paio d’ore.
«Si tratta di un elemento d’indagine assai rilevante che abbiamo sottoposto alla procura », commenta D’Amato. Il quale non si spinge a ipotizzare responsabilità individuali, ma butta lì un’osservazione meno banale di quanto possa sembrare: «Soltanto la Questura, in quei giorni, aveva a disposizione il passaporto centrafricano di Alma, su cui c’era la foto di Alua, usata poi sull’altro documento». Come è finito nelle mani dei diplomatici kazaki? Chi ha consentito una così macroscopica violazione dei diritti di una bambina di sei anni?