Valerio Cappelli, Corriere della Sera 13/11/2013, 13 novembre 2013
TOSI E TUTTI I COSTUMI DA OSCAR : COSÌ RIFIUTAI KUBRICK E BERGMAN
[Piero Tosi]
«Sarei un disgraziato se dicessi che non mi fa piacere. Ma non sarei andato neanche quarant’anni fa, non amo viaggiare, ho fatto una sola vacanza, negli Anni 60, a parte gli spostamenti per lavoro. Ho il terrore dell’aereo, e detesto muovermi dal mio covo», dice Piero Tosi, 86 anni, il più grande costumista vivente, il mondo di Visconti. Sabato a Los Angeles gli daranno l’Oscar alla carriera.
È la prima volta che si assegna non a un attore o a un regista ma a un «artigiano» del cinema. Lo ritirerà per lui Claudia Cardinale, alcuni illustri colleghi e Dino Trappetti della sartoria di Umberto Tirelli, con cui Tosi ha realizzato i suoi abiti: «Mi manca la vitalità di Umberto, andavamo a cercare le stoffe al mercatino delle pulci di Parigi». Il suo «covo» sono due stanze vicino al Pantheon in cui vive in modo frugale: «Non ho mai voluto né una casa né oggetti, è arredata da mobili di scarto di amici e parenti. Ho lo stretto necessario. Nel frigo, che è sempre vuoto, tengo i colori. Per il resto, libri ovunque».
Tosi, il suo nome richiama Visconti, De Sica, Fellini, Pasolini, Bolognini, Zeffirelli.
«Devo tutto a Franco Zeffirelli, è la persona che mi ha “inventato”. Lo conobbi a Firenze, io ero all’Istituto d’Arte e lui alla facoltà d’Architettura. Vidi una foto di La terra trema , era un’immagine talmente insolita. E mi feci accompagnare da mia zia alla Mostra di Venezia, dov’era il film. Cercai Franco. Iniziò tutto da lì: 1948. Debuttai con Bellissima , ho condiviso ventotto anni di lavoro con Visconti, mica uno scherzo».
Quando si parla di lei, la prima immagine a cui si pensa è Claudia Cardinale nel «Gattopardo».
«Sopportò il busto strettissimo di 53 centimetri. Claudia era una clessidra. L’abito è di madreperla, con undici sottogonne di colore diverso contenute da un’organza di Dior, qua e là piccoli disordinati pois di oro leggero e d’argento. A rendere l’abito più “aereo” erano, al fondo, i nastri di organza satinata impalpabile. La bellezza del vestito sta nella sua leggerezza. La sartoria aveva lavorato d’ingegneria, le crinoline e la gonna erano legate in modo che, nel ballo, tutto si spostava, restando incatenato. Ho fatto otto film con Claudia. Una donna plasmabile, timida, dolce: al ciak si anima. È come lavorare una creta».
È quello l’abito che ama di più?
«No, quando li rivedo vorrei rifarli. Con gli anni scopri solo i difetti, il tempo segna tutto. Se ho una preferenza, è per quelli fatti in miseria. Perché è una sfida. I costumi non devono vestire il corpo: vi si devono adattare come una seconda pelle».
La definiscono un gatto pigro.
«Appena sento che mi si prende per la coda, scappo. Un tempo pagavano meglio di oggi, ma ricordo che quando dovevo firmare un contratto mi chiedevo, chissà cosa vorranno questi da me? E poi il terrore di essere perseguitato dai registi la notte».
Sono famosi i suoi «no».
«Per La mia Africa c’era il lungo viaggio. Kubrick per Barry Lyndon disse che era abituato ad avere il meglio del mondo pagando il minimo: fui contento di vedere un tale capolavoro senza faticare. Con Bergman ci siamo sfiorati per tre volte: una Vedova allegra che poi saltò con Barbra Streisand. Poi Ingmar venne a Cinecittà, dove stavo lavorando con Fellini, il quale per tutto il tempo parlò di Kubrick ignorando Bergman. Finì nel gelo. Poi il terzo rifiuto».
Com’è cambiato il concetto di Bello?
«Ogni tempo ha il suo ideale di bellezza, se si parla di donne, è cambiato tutto. Oggi vanno le spalle larghe senza fianchi, capelli-capelli, labbra-labbra, seni abbondanti. Al cinema poi la bellezza non è più necessaria, si raccontano storie quotidiane, si usa gente che ha un aspetto ordinario. E funzionano tutti. Ho avuto la fortuna di lavorare con grandi personalità, Visconti non avrebbe mai permesso attori capricciosi. Non esiste più il divismo. Oggi si capisce cos’è una Mangano, una Loren».
Con Visconti lei aprì, nel 1958, il Festival di Spoleto: «Macbeth».
«Tre anni prima debuttai con lui alla Scala, Sonnambula diretta da Bernstein, e Maria Callas. Non sapevo nulla di melodramma. L’avevo vista in una Traviata in cui pesava 100 chili, cantò l’ultimo atto seduta su una sedia che scricchiolava, lo sguardo tragicamente fisso allo specchio. La ritrovai sottile come un punto esclamativo, miope, entrava alla cieca, sembrava in trance. Luchino le suggerì gesti da ballerina classica».
Valerio Cappelli