Francesco Daveri, Corriere della Sera 13/11/2013, 13 novembre 2013
L’UNIONE EUROPEA NON PUÒ IGNORARE GLI SQUILIBRI CHE AIUTANO LA GERMANIA
Novembre non è stato un buon mese per Berlino. Ha cominciato il Tesoro americano affermando che «la scarsa crescita della domanda tedesca e l’eccessiva dipendenza dalle esportazioni della Germania hanno impedito il riequilibrio degli altri paesi dell’eurozona (...) Il risultato netto è stato quello di indurre una pressione verso la deflazione in tutta l’area euro e anche nell’economia mondiale». Martin Wolf del Financial Times e il premio Nobel Paul Krugman dalle colonne del New York Times hanno supportato l’analisi. E persino il commissario europeo Olli Rehn, spesso individuato come un fedele interprete del rigorismo fiscale tedesco, ha ricordato che gli accordi dell’Unione scoraggiano tutti gli squilibri, di qualsiasi tipo, troppi debiti come pure troppo surplus commerciale. Difficile non inserire in questo quadro il fatto che dai colloqui per arrivare a formare un governo di Grande Coalizione sia uscita la proposta bipartisan Cdu-Spd di sottoporre a referendum nazionali ogni trasferimento di sovranità da Berlino a Bruxelles. Un chiaro segnale di forte nervosismo per eventuali ingerenze europee.
Ricapitoliamo i fatti. Nel secondo trimestre 2013, il surplus commerciale tedesco — la differenza tra export e import di beni e servizi dagli altri Paesi — è stato pari al 6,3 per cento del Pil (Prodotto interno lordo). Un dato minore di quello record di fine 2007, ma pur sempre un avanzo unico tra i grandi Paesi manifatturieri. Di fronte a surplus estero così ampio le altre nazioni sostengono che la Germania faccia crescere il suo prodotto interno lordo e la sua industria a spese degli altri Paesi. Ma l’idea che Berlino — vendendo all’estero — rubi crescita e posti di lavoro agli altri Paesi non tiene conto del fatto che, per quanto riguarda l’export extra europeo, il mondo ha un tasso di sviluppo ancora oggi del 3 per cento l’anno. E quindi la Germania esportando auto, frigoriferi, treni e altri beni di prima necessità ai Paesi emergenti, intercetta una domanda aggiuntiva che gli altri fanno fatica a catturare.
Per quanto riguarda l’export verso i Paesi europei, che è il cruccio di molti governi, va detto che è vero che il surplus tedesco è da anni elevato. Come pure il fatto che lo stupefacente aumento di produttività dell’industria tedesca si è tradotto solo parzialmente in aumenti di stipendio. Questo significa che non si è tradotto in una domanda interna e quindi in un import in grado di riequilibrare lo sbilancio con gli altri Paesi. Paesi per di più spesso alle prese con un pesante risanamento dei conti pubblici. E ciò anche se l’avanzo tedesco verso l’eurozona è ora sceso sotto al 2 per cento dal 5,5 del 2007.
Nel complesso, il surplus commerciale tedesco ci ricorda che è giusto porre il problema di un riequilibrio complessivo delle politiche economiche che evitino il persistere di ampi squilibri commerciali e valutari. Ma questi temi devono arrivare operativamente al G20, non diventare oggetto di demagogia interna dei singoli Paesi.
Le parole oggi usate dall’amministrazione americana contro la Germania sono quasi le stesse pronunciate tempo fa dal ministro delle Finanze brasiliano Guido Mantega proprio contro gli Usa. Dal 2008 in poi, infatti, sul banco degli imputati c’era l’America che — con i suoi tassi di interesse azzerati e i suoi fiumi di liquidità all’economia — provocava enormi afflussi di capitale e un drammatico apprezzamento delle valute — con annessa perdita di competitività — dei Paesi emergenti.
Nell’eurozona non si può non tenere a mente che una parte dell’ossessione tedesca per l’equilibrio di bilancio e i guadagni di efficienza è anche la preoccupazione di una società che sta invecchiando rapidamente. Nell’opporsi legittimamente all’unilateralismo di Berlino l’Europa non deve fare l’errore però di dimenticare che le domande alle quali la Germania ha dato risposte prima degli altri sono le stesse per l’Unione e per tutti i Paesi che la compongono.