Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 13/11/2013, 13 novembre 2013
RACCONTO IL BAMBINO VITTIMA DI UNA GUERRA TRA GENITORI COLPEVOLI
Brando gioca a pallone da solo, con la maglietta di Benzema, il centravanti del Real Madrid. Non è un «bambino cattivo», come dice il titolo del film tv di Pupi Avati, che RaiUno manda in prima serata il 20 novembre. Brando è il figlio di una famiglia in cui nessuno ha ragione. I genitori usano la conoscenza reciproca per combattersi meglio: la madre affonda nell’alcol, il padre anziché aiutarla insegue amori giovanili. E i nonni materni sono più preoccupati di punire il genero che di prendersi cura del nipote...
Il film l’ha scritto, girato, montato lui, ma a rivederlo Pupi Avati ancora si commuove. «Mi sto occupando di famiglia da molto tempo. Ma la goccia che ha fatto traboccare il calice, il momento in cui ho avvertito la necessità di fare questo film è stato quando ho letto del bambino conteso di Cittadella, in provincia di Padova, portato via da scuola dai poliziotti. Ovviamente non è la trasposizione esatta di quella vicenda; è comunque una storia in cui l’unica vittima autentica è il figlio. Ho scritto il film in pochi giorni, tutto dal punto di vista di un dodicenne. Mi sono commosso, ma è una commozione buona, che fa bene. E la cosa che mi ha inorgoglito di più è che Luigi Cancrini, il grande psichiatra dell’infanzia, mi ha detto: “Questo l’ha fatto un bambino. Non può averlo fatto un uomo di 75 anni come te”. Ma la bellezza di avere 75 anni è che diventi come un bambino. Da vecchio tornano disponibili tutte le età, ritrovi elementi che ti consegnano all’infanzia, in primo luogo la vulnerabilità. Bambini e vecchi comunicano in modo straordinario, perché sono entrambi vulnerabili».
L’unica figura che tenta davvero di aiutare Brando è in effetti la nonna paterna (la bravissima Erica Blanc), che però sottraendolo agli assistenti sociali finisce per peggiorare la situazione. Invano la donna chiede di essere ascoltata: il giudice tira dritto, la burocrazia fa il suo corso, il padre e i nonni materni si accordano per rinunciare al bambino, che viene affidato a una casa famiglia. I compagni di scuola sono talora crudeli. Ma gli ospiti della comunità dietro un’apparente durezza tradiscono il bisogno di essere amati. Qui il film si fa straziante, e non commuoversi diventa obiettivamente difficile.
«Io non condanno i genitori — dice Avati —. Non mi escludo. Certe cose le ho vissute anch’io. Anche io ho conosciuto la difficoltà di essere padre: un ruolo complesso, la cui utilità ti viene riconosciuta a grande distanza di tempo. Anche nel mio matrimonio, che dura da 49 anni, c’è stato uno strappo doloroso. Poi però ho ricomposto la lacerazione, sono tornato, ed è come se il matrimonio vero fosse cominciato allora. Oggi i giovani si separano dopo tre o sei anni, quando ancora del matrimonio non sanno nulla. Li rispetto, non voglio essere polemico; ma è come giudicare un ristorante stellato dal preantipasto. Il matrimonio è fatto anche di sofferenza, di sopportazione, di perdono. Mia moglie è la vera depositaria della mia esistenza, mi conosce da quand’ero ragazzo, sa tutti i miei segreti. È una donna complicata, litighiamo tutti i giorni, ma non vedo l’ora tra un anno di riportarla in chiesa, di sposarla un’altra volta, di ripeterle un altro “per sempre”».
Anche «Il bambino cattivo» (girato in una Roma di periferia, non brutta ma alienante) ha un finale lieto, sia pure sofferto. Il padre — interpretato da un Luigi Lo Cascio per una volta nella parte di un personaggio negativo, o meglio superficiale — cede alla nuova compagna, che non vuole Brando in casa; e quando finalmente lo va a trovare in comunità, non è per portarlo via, ma per annunciargli l’arrivo di un fratellino. È allora che Brando decide di vivere con una coppia che ha perso il proprio figlio, e da tempo chiede di adottarlo. A una condizione: «Non potrò essere il bambino che avete perduto, e non vi chiamerò mamma e papà».
«La linea che ci siamo dati è “nessuno escluso” — dice Tinni Andreatta, responsabile della fiction Rai —. Avevamo l’ambizione di raccontare una storia vista con gli occhi di un bambino, per dare voce all’infanzia e all’adolescenza, che di rado diventano il soggetto di un film. Sono felice che Avati l’abbia raccontata in modo asciutto, senza enfasi, ma molto forte. La trasmetteremo nella giornata dell’infanzia, d’intesa con il garante». «Tra tutti i miei film, che sono ormai più di 45, “Il bambino cattivo” è quello per cui ho inventato meno — dice il regista —. Non mi sono abbandonato a fantasticherie; mi sono posto il problema della verità. Non amo la parola “fiction”. Ho cercato, man mano che lavoravo, un margine di verosimiglianza sempre maggiore. Mi ha aiutato molto il protagonista, Leonardo Della Bianca. È figlio di due bravi doppiatori, che l’avevano preparato per il provino. Gli ho chiesto di “resettarsi” e di tornare impreparato. Ho potuto così lavorare con un ragazzino dalla sensibilità enorme, portatore di verità. È stato come giocare a tennis con un grande campione, il modo per andare in un altrove. Del resto anch’io, come tutti, ho la mia maglietta di Benzema, il posto in cui mi rifugio dal male del vivere. Nel momento peggiore, Brando smette anche di sognare, di immaginare un altrove. Per questo, quando ritrova una famiglia e una serenità, tira fuori dal cassetto pure la maglia del Real Madrid».
Aldo Cazzullo