Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 13/11/2013, 13 novembre 2013
I VENTI DI SECESSIONE DA TRIPOLI SOFFIANO ANCHE SULL’ORO NERO
«Prima c’era lo Stato ferocemente repressivo di Gheddafi, oggi non c’è più uno Stato e chiunque impugnando le armi può fare quello che vuole, anche entrare nel mio ufficio e buttarci fuori», diceva qualche giorno fa il ministro della Cultura Mohammed al Habib al Amin che aggiungeva: «Voi italiani non potete essere indifferenti perché il nostro problema di oggi può diventare domani quello del vicino». Nei tanti e confusi volti del caos libico questa del ministro era una trasparente verità.
Ed eccoli i problemi: a Ovest, nel terminale di Zuara, la pipeline del Greenstream che porta il gas in Italia è bloccata dalle rivendicazioni dei berberi, infuriati perché alla prossima Assemblea costituente che si eleggerà in febbraio a loro sono stati riservati, come alle altre minoranze (tebù e tuareg), soltanto due seggi. A Est la Cirenaica, con il suo tesoro petrolifero (70% delle riserve) si sta staccando da Tripoli, con un processo di sgretolamento che ricorda l’agonia della Jugoslavia dopo Tito. L’atletico Ibrahim Jtahran, 33 anni, capo dei miliziani che dovrebbero fare la guardia ai pozzi della Cirenaica, ha nominato una sorta di governo ombra e annunciato la costituzione della Libyan Oil and Gas Corporation.
Con troppo ottimismo nel recente passato si è ripetuto con un mantra: «I libici sono pochi e sono ricchi, finiranno per mettersi d’accordo». Ma gli eventi stanno smentendo la superficialità di certi giudizi che hanno accompagnato la primavera araba. Il risveglio arabo, cominciato il 17 dicembre 2010 con le fiamme che divoravano il giovane tunisino Mohammed Bouazizi, ha determinato il crollo di regimi semi-falliti ma in realtà ha messo in discussione l’esistenza stessa di diversi Stati della regione. Neppure il principio di legittimazione democratica con le elezioni ha riempito la voragine lasciata da questi fallimenti. Come dimostrano i sanguinosi eventi egiziani, l’instabilità cronica della Tunisia e la frammentazione anarchica della Libia, manca completamente un progetto politico condiviso da tutte le componenti etniche, tribali, secolari e religiose. E così la sponda Sud del Mediterraneo evapora ancora più rapidamente del suo gas e del suo petrolio.
Ancora prima che crollasse il Colonnello era prevedibile che Tripoli e Bengasi, separate da mille chilometri e da un’autostrada che dovremmo costruire noi italiani, sarebbero arrivate ai ferri corti. Bengasi, cuore della rivoluzione, trattata da Gheddafi per decenni come una remota provincia, non ha mai gradito che a Tripoli decidessero il destino del Paese. Re Idris, leader dei Senussi della Cirenaica, fu convinto a stento dagli inglesi a diventare sovrano di tutto il Paese e fece la dichiarazione di indipendenza del ’51 dal palazzo di Bengasi. E quelli di Misurata, orgogliosa città martire contro Gheddafi, oggi sono di fatto una sorta di repubblica indipendente che ricorda quella proclamata dopo l’invasione coloniale degli italiani del 1911, la prima del mondo arabo. Fu costituita nel 1918 e il nipote di uno dei capi di allora, Abdulrahman Swehli, è adesso il leader della città, porto strategico nelle mire delle multinazionali e dei cinesi.
Il primo ministro Alì Zeidan sta negoziando strenuamente per portare dalla sua parte le tribù di Tobruk, in conflitto con i rivoluzionari di Bengasi e minaccia un intervento armato contro i ribelli. Ma anche lui, brevemente sequestrato dai miliziani il 10 ottobre scorso, non è al sicuro, come nessuno del resto. L’altro giorno i thuwar, i rivoluzionari, dopo l’esplosione degli scontri nella capitale a Suk al Jamaa, sono entrati in un albergo alla caccia di un rivale di Misurata e non avendolo trovato, come consolatorio diversivo, hanno rapinato gli ospiti, tra cui alcuni diplomatici italiani.
Ma oltre ai conflitti per il petrolio, le autonomie regionali ed etniche, c’è dell’altro. Lo Stato libico, già labile sotto il Colonnello, si è disfatto ma resiste un coriaceo "Stato ombra" che frena una possibile ricostruzione perché l’instabilità favorisce un ritorno sotterraneo della vecchia guardia. A Sud di Tripoli la milizia Qaaqa è costituita ancora da uomini della 32esima Brigata di Kamis, uno dei figli di Gheddafi uccisi nel 2011, e la guida Orhan Mlegta, fratello del segretario del partito nazionale di Mahmoud Jibril, che un tempo sedeva nel Comitato Olimpico con Mohammed Gheddafi, primogenito del dittatore. Intorno alla milizia di Zintan, che ha in mano il figlio del Colonnello Saif Islam, si sta coagulando un’alleanza sostenuta dai Warfalla, dai Margha e dalla tribù di Gheddafi.
Eppure, in questo caos, gli imprenditori, soprattutto gli italiani, corrono a Tripoli, affollando voli e alberghi, attirati dal business e avvinghiati a quel che resta della Quarta Sponda. Ma oggi i libici, o almeno una parte di loro, chiedono all’Italia e all’Europa qualche cosa di più che fare affari: un aiuto per non sparire dalla carta geografica.