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 2013  novembre 13 Mercoledì calendario

MR. FACEBOOK NON HA UFFICIO


La mia curiosità è quella di scoprire com’è fatto l’ufficio di un uomo il cui valore è stimato intorno ai 17 miliardi di dollari. Uno pensa a una pattuglia di segretarie uscite da un casting per Vogue; una scrivania in acero della British Columbia; schermi ultrapiatti che cambiano canale con la voce. Cose così. Ma questo è un pensare vecchio, superato. Sepolto. Mark Zuckerberg, Mister 17 miliardi appunto, nel quartier generale di Facebook un ufficio neppure ce l’ha. Steve, l’affabile 35enne del Connecticut che mi ha preso in consegna all’ingresso del regno, sorride quando gli chiedo dell’ufficio. È la domanda che fanno tutti. Sono vecchio e prevedibile.
«Nessuno di noi qui ha un proprio ufficio. Questo è un autentico open space. Ci si incontra dove capita e dove è più comodo per tutti. Mark ha un’area che predilige, ma in realtà potresti incontrarlo ovunque. È la nostra filosofia».
Per entrare nella sede di Facebook, a Menlo Park, venti minuti a sud di San Francisco, serve un invito e la procedura impone di ricevere una serie di «Mi piace» da parte della security. Steve è il mio primo amico di Menlo Park: il 
suo lavoro è condividere con il visitatore una visione, uno stile di vita, qualcosa che voi umani avete soltanto immaginato. Sono dentro a Facebook, dall’altra parte di quello schermo che 1 miliardo e 150 milioni di persone titillano ogni giorno con le motivazioni più disparate. Ed è un luogo reale, anche se nessuno qui ha l’aria di lavorare sul serio.
La storia insegna: il successo degli uni affonda le radici nel fallimento di chi li ha preceduti. E la sede di Facebook
è nata dalle rovine di una delle più prestigiose aziende americane di fine anni ’90, la Sun Microsystem, allora all’avanguardia nella creazione di sistemi operativi (Java, per esempio), software e componenti per computer. In pochi anni era diventata un impero, ma la bolla del .com l’ha messa al tappeto in pochi mesi. Quando Zuckerberg ha preso possesso degli edifici ha mantenuto il marchio della vecchia compagnia, ben visibile un po’ ovunque: Sun Microsystem. Il motivo? Lo spiega Steve: «Mark vuole che teniamo ben presente che il successo non è qualcosa che possiamo dare per scontato. Che per mantenerci al top dobbiamo lavorare duro. Che questo è un business: essere leader oggi, domani potrebbe non significare più nulla». E sfiora con le dita la vecchia decalcomania, come fosse un totem cui si deve molto rispetto.
Ma non pensiamo agli anni d’oro della Sun: oggi qui è tutta un’altra storia. Sono nati i ristoranti: ce ne sono una quindicina, tutti gratis per i dipendenti. E poi, gelaterie, aree di svago, tavoli da ping-pong sparsi tra le scrivanie, piccoli parchi dove gruppi di ragazzi (difficilmente over 30) si riuniscono in quelle che sono normali riunioni di lavoro, ma che sembrano incontri tra studenti fuori corso. C’è pure un’officina con un meccanico per biciclette, perché Zuckerberg incoraggia i dipendenti a fare vita sana ed ecologica. Meglio le due ruote dell’auto. Che è una bella teoria, ma se il luogo di lavoro è situato ad almeno mezz’ora dal primo segno di civiltà la pratica fa a pugni con le belle intenzioni.
E allora, no problem, ci pensa Mark: tra un anno nascerà la città di Facebook, un complesso che sta sorgendo a fianco dell’attuale quartier generale: 60 mila metri quadri, circa 450 appartamenti, 35 uffici (pardon, spazi di lavoro), piscine, parchi, negozi, una pista per lo skateboard. Costo totale: 120 milioni di dollari. Un’inezia, per Zuckerberg. Una volta terminato, sarà impossibile capire se i dipendenti potranno mai fare davvero log off o invece se rimarranno sempre connessi.
Steve elenca i dati che fanno della sua azienda un luogo molto speciale. Uno su tutti: «Siamo l’unica compagnia americana che concede ai propri dipendenti 30 giorni di ferie pagate l’anno. Incredibile vero?». Anche se poi 4 dipendenti su 10 non le utilizzano. In effetti, qui sembra di stare in vacanza: c’è il sole, ci sono le belle ragazze (e i bei ragazzi), e quel clima da eterno dopo scuola. Poi c’è Mark Zuckerberg, «che è uno di noi», sottolinea Steve: arriva ogni mattina a piedi, si veste sempre con la stessa felpetta un po’ stanca e i jeans. Rassicurante. Un look che è una sorta di manifesto culturale. O forse un messaggio subliminale: anche tu potresti essere miliardario, un giorno.
Il tour prevede un passaggio obbligato proprio davanti a Zuckerberg, che per lavorare oggi ha scelto una specie di acquario, una stanza con una grande vetrata che guarda sulla piazzetta principale di Facebook-land, una scrivania e poche sedie a vista. C’è un cartello appiccicato al vetro che avverte il passante: «È proibito scattare le foto agli animali», un modo divertente per dire che al capo non va a genio essere taggato. D’accordo la disponibilità, ma anche qui le regole d’ingaggio non sono uguali per tutti.
«È per la privacy», spiega Steve ricordando che le foto sono possibili solo in certe aree della struttura. In fondo è pur sempre una compagnia quotata in Borsa. E si sa quanto Zuckerberg abbia a cuore la privacy: due mesi fa ha comprato per 30 milioni di dollari il terreno che circonda la sua casa di Palo Alto, comprese tutte le abitazioni. Non vi costruirà nulla né tantomeno caccerà gli attuali condomini. È solo un uomo molto ricco, che ha scelto di mettere qualche restrizione nella propria vita privata.
Un po’ l’opposto di quello che succede in azienda, dove invece se un dipendente scrive un messaggio pubblico (che appare sulle decine di schermi sparsi ovunque) con un suggerimento, un’idea o anche un commento sulla qualità del tacchino del bistrò, viene letto da tutti. E poi si commenta, si criticano, si condivide. Su ogni parete disponibile ci sono frasi per motivare chi lavora: scritte a pennarello o prestampate nella locale tipografia. Elaborate grazie alla falegnameria interna. Perché a Menlo Park c’è pure una falegnameria.
Tra i vari motti, uno ricorre più degli altri: «Che cosa faresti se non avessi paura?». Paura intesa come sfida. La sfida suprema che Facebook ha lanciato al mondo: quella di riuscire ad anticipare e controllare il futuro attraverso la tecnologia. La tecnologia capace di intuire e gestire i nostri desideri, le pulsioni e le debolezze che non riusciamo a tenere private. E così, quando Zuckerberg parla a un gruppo di studenti di un liceo di San Francisco, non c’è esitazione, non ci sono dubbi. Solo certezze. «Studiate duro, imparate a conoscere a fondo la persona che vi sta a fianco. Scegliete sempre la strada più difficile e ricordate che siete la generazione con più potere nella storia del mondo. L’educazione è la base indispensabile per prepararvi alla conquista del mondo». E fa un certo effetto sentirlo dire da un giovane che, più o meno alla loro età, ha mandato a quel paese Harvard.
All’uscita di Facebook, colpisce una scritta, che è il vero mantra aziendale: «Move fast and break things» (muoviti veloce e rompi le cose attorno a te). Steve spiega che lo slogan è stato messo in discussione da alcuni dipendenti. È successo durante il meeting del venerdì, che qui è una consuetudine. Si svolge nella sala del ristorante principale, quella in cui Zuckerberg pranza in mezzo ai suoi discepoli, per scambiarsi opinioni e monitorare il clima generale. Partecipano tutti: chi di persona, chi collegato in video conferenza. L’obiettivo di questi incontri è quello di offrire al capo idee, spunti di discussione, in modo molto democratico. E così, qualche settimana fa, uno stagista (che, come sottolinea Steve, ha potuto prendere la parola esattamente come ogni dipendente assunto) ha proposto un nuovo slogan: «Slow down and fix things», rallentiamo e aggiustiamo le cose rotte. Un motto che forse si adatta meglio all’attuale situazione economica e alla nuova dimensione dell’azienda. Zuckerberg ha preso nota e ha risposto che gli sembra uno spunto interessante.