Marc Goergen, D Repubblica 9/11/ 2013, 13 novembre 2013
2013 OPERAZIONE FRONTEX
L’Europa finisce a Nea Vyssa. Questa piccola e desolante cittadina si trova nell’angolo nord orientale più remoto della Grecia. I muri delle case sono grigi, i giovani si contano sulle dita di una mano e nei giorni di bei tempo la cittadina turca di Edirne sembra tanto vicina da poterla toccare. Solamente davanti alla stazione di polizia regna una palpabile frenesia: a intervalli brevissimi, infatti, davanti all’ingresso principale si fermano delle jeep dalle quali spuntano treppiedi, videocamere e borsoni. Dappertutto si vedono targhe tedesche e ungheresi, tuttavia sulla missione vige il più stretto riserbo, nessuno è autorizzato a parlare. Gli uomini che incontriamo non ci vogliono neppure dire i loro nomi. Un giovane ragazzo tedesco si lascia scappare una sola battuta: «Ripartiamo subito alla volta dell’area di intervento». L’area di intervento in questione è il confine tra Turchia e Grecia. Il contingente tedesco lo presidia per conto di Frontex, l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea. Ha il compito di coordinare il pattugliamento delle frontiere e di fornire equipaggiamento e squadre di soccorso. Il loro slogan è: «Libertas, Securitas, Justitia».
Tuttavia, specie dopo le ultime tragedie che hanno sconvolto Lampedusa, una domanda tormenta un numero sempre crescente di persone: cos’ha a che vedere tutto questo con i concetti di libertà, sicurezza e giustizia? Oggi, la regione greca di Evros, insieme all’isola di Lampedusa e alle due exclave spagnole di Melilla e Ceuta, rappresenta uno dei teatri più rilevanti in cui si svolge la lotta contro l’immigrazione illegale in Europa. La linea di confine corre per circa 200 km tra la Turchia e la Grecia. A parte una striscia di terraferma lunga 12 chilometri, il grosso della frontiera è delimitato dal fiume Evros. Questo e forse il posto che mostra nel modo più chiaro e drammatico il riarmo dei confini europei.
Sino all’estate del 2012, una media di 300 persone al giorno tentavano di attraversare il confine. Nel giro di pochi mesi i cimiteri non avevano più posto per tutti quelli che erano annegati nel fiume. Cristiani e musulmani venivano gettati uno accanto all’altro in fosse comuni, e quindi ricoperti con cumuli di terra.
Fu a questo punto che intervenne la Frontex: la Grecia chiese all’agenzia l’invio di una squadra pronta a intervenire. Da quel momento sino a oggi, gli uomini coinvolti nel progetto di messa in sicurezza di questa terra di mezzo sono stati oltre 1.800.
Le jeep della polizia stazionano a distanza ravvicinata lungo il confine e sorvegliano la zona con telecamere termiche e visori notturni a infrarossi. Funzionari tedeschi hanno il compito di coordinare il lavoro degli agenti greci della polizia di confine. Nel frattempo, qui sono al lavoro anche squadre provenienti dalla Polonia, dalla Finlandia e dalla Bulgaria. Il risultato è che adesso sono pochissimi gli immigrati clandestini che vengono davvero fermati. Intatti, piuttosto che via terra, oggi i “traghettatori” turchi, scelgono di mandare i migranti in Europa via mare: per esempio verso le isole Samos e Lesbos. Questo tragitto, però, e molto più pericoloso. E probabilmente oggi muoiono molte più persone di quante ne perissero lungo l’Evros.
Frontex, con il suo budget che si aggira intorno agli 85 milioni di euro, rispecchia forse meglio di qualsiasi altra realtà istituzionale l’impotenza dell’Europa nei confronti della gestione dei migranti. Dissuadere con umanità dovrebbe essere il fine della loro presenza. E invece «lo scopo ultimo sembra essere quello di allontanare il più possibile la responsabilità di ciò che accade», sostiene Julian Roder, il fotografo berlinese che ha documentato il lavoro delle autorità competenti. Sono suoi gli scatti di queste pagine. Il Frontex Situation Center ha sede in un grattacielo di Varsavia e conta 300 collaboratori: qui vengono raccolti i dati provenienti dai diversi Paesi dell’Unione Europea. Un mix di schermi a parete e mappe interattive (di mare e di terra) hanno il compito di realizzare le cosiddette “analisi del rischio”.
Frontex non dispone di propri agenti di polizia o personale di Dogana, ma fa affidamento sui singoli Stati dell’UE. In sostanza, nel momento in cui la Grecia avverte di non riuscire più a fare fronte autonomamente all’emergenza immigrazione, si rivolge a Frontex per ricevere un supporto. A questo punto, come se si stesse consultando un catalogo, i burocrati scelgono all’interno dei diversi Paesi le unità operative e gli equipaggiamenti per loro più adeguati da inviare nella zona di crisi. Il risultato è una sorta di torre di babele che mette insieme unita cinofile finlandesi e doganieri tedeschi sul confine tra la Grecia e la Turchia per dissuadere migranti afgani e siriani dal loro “intento clandestino”. Una volta colto in fallo il malcapitato, gli agenti si occupano di registrare l’ingresso in Grecia di quelli che ce l’hanno fatta a passare il confine prendendo loro le impronte digitali e schedandoli. Questo fa si che i nuovi arrivati non abbiano la possibilità di chiedere asilo in un altro Stato dell’Unione.
Questo nuovo regolamento, “Dublino III” è stato confermato ufficialmente la scorsa estate, mentre la reale soluzione del problema sembra essere semplicemente stata rimandata.
Inoltre, pare che a partire dal mese di dicembre 2013 in tutto il bacino del Mediterraneo verrà messa in campo una squadra di sorveglianza composta da droni, satelliti e boe munite di sensori. Si chiamerà Eurosur, costerà 224 milioni di euro e, al momento, in Francia sono in fase di test alcune telecamere. In questo modo dovrebbe essere possibile localizzare “flussi migratori problematici” prima che questi si avvicinino al confine europeo. Ma a quel punto, cosa accadrà? A quel punto, il paradosso relativo ai confini europei verrà definitivamente a galla.
Difficilmente Eurosur sarà in grado di evitare tragedie come quelle recenti avvenute a Lampedusa. Del resto, la precisa localizzazione in mare dei “flussi migratori problematici”, in parole povere i “barconi di disperati”, spesso la si conosce già oggi.
Nel marzo del 2011, un’imbarcazione rimase a corto di carburante tra Tripoli e Lampedusa. Il “traghettatore” chiamò la Guardia Costiera che avvertì immediatamente le barche presenti in zona. Anche la Frontex intervenne. Alcuni sopravvissuti raccontarono nelle settimane successive che un elicottero lanciò a bordo acqua e biscotti, ma nessuna imbarcazione presente nei paraggi, né le barche dei pescatori né una nave della NATO, fecero salire a bordo le persone. Dopo 15 giorni, l’imbarcazione dei profughi venne rispedita verso la costa libica: delle 70 persone a bordo ne sopravvissero 10.
In seguito, Ikka Laitinen, Executive Director di Frontex, scrisse che sfortunatamente, non era stato possibile ricostruire la precisa posizione delle imbarcazioni in acqua in quella determinata circostanza.