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 2013  novembre 13 Mercoledì calendario

JILL ABRAMSON LA REGINA DEL NYT


Per Jill Abramson, che lo scorso 6 settembre ha compiuto due anni alla guida del New York Times, aprile era stato il più insolito se non il più crudele dei mesi. La prima donna ad aver mai occupato la poltrona di direttore nei 160 anni di vita del Times aveva appena cominciato a gustarsi i quattro premi Pulitzer vinti dal suo staff quando sono scoppiate le bombe alla maratona di Boston. Passando anche l’intera notte nella redazione al terzo piano del grattacielo di Manhattan progettato da Renzo Piano, ha vigilato su una settimana di “copertura totale” (l’espressione favorita di uno dei suoi predecessori, Howell Raincs, per dire lo spiegamento massimo di giornalisti su una notizia), mentre i suoi inviati e redattori riuscivano a evitare gli errori imbarazzanti commessi dall’AP, dalla CNN, e perfino dal Boston Globe.
Poi, la sera del 23 aprile, la testata Web Politico – molto seguita dagli addetti ai lavori – ha pubblicato un pezzo in cui si lasciava intendere che la pur breve direzione Abramson fosse già un fallimento. Citando in forma anonima dipendenti del Times sosteneva che era da più parti considerata «testarda», «altezzosa», «difficile», «irragionevole», «impossibile», «indifferente» e «a un passo dal perdere il sostegno della redazione». Un membro della redazione confidava al giornalista Dylan Byers: «Ora come ora, il Times non ha un leader. Jill è molto impopolare».
Donna minuta, con una parlata strascicata tra UpperWest Side e Harvard (dove ha debuttato nel giornalismo universitario), Abramson quando ha letto la notizia su Internet era sola nella sua casa di Tribeca. L’uomo con cui è sposata da 32 anni, Harry Griggs, era uscito, cosi come i due figli adulti.
«Ho pianto», racconta Abramson. «Dovrei dire che mi è scivolata addosso, ma sono sincera. Il mattino dopo, però, non era già più un pensiero cosi presente. Mi ero fatta un bel pianto ed era finita lì. Oltretutto Arthur Sulzberger, l’editore, mi è stato molto vicino. In pratica ha detto: succede, quando si occupano certe posizioni. Non farti scalfire». Sulzberger ha anche citato quella che definisce la Seconda legge del giornalismo: «Non è colpa tua. È solo il tuo turno».
Dirigere il New York Times non è mai stato un lavoro per deboli di cuore. I 24 mesi di Abramson alla guida del giornale sono stati scanditi dalla morte in Siria del corrispondente premio Pulitzer Anthony Shadid, da una violenta disputa contrattuale con il sindacato dei giornalisti e, sette mesi fa, dal licenziamento di una trentina di firme di medio livello, compresi alcuni veterani del Times tra i più amati. «Per esperienza personale, posso dirle che in momenti del genere il morale va a farsi benedire», osserva Bill Keller, l’immediato predecessore di Abramson, che in un’occasione ha paragonato il lavoro del direttore, in un periodo di licenziamenti e prepensionamenti forzati, a quello «di un macellaio con il grembiule imbrattato di sangue». Ma nonostante tutto, caso unico in un settore martoriato da tagli e chiusure, il quotidiano di Abramson conta ancora lo stesso numero di dipendenti (circa 1100) di un decennio fa, e continua a mantenere 14 redazioni nazionali e sei regionali, oltre a 25 sedi estere. Nel frattempo, la rischiosa transizione del sito del Times dall’accesso libero a un numero fisso di articoli visionabili ogni mese sembra funzionare: l’edizione web vanta oltre 700mila abbonati paganti.
Ma non per questo il Times è immune dall’ansia che regna in tutta l’industria dell’informazione, in un’epoca in cui la carta lascia il posto al digitale e perlomeno al Times il settore commerciale (che un tempo si occupava solo di tirature, promozione e pubblicità) sembra avere un ruolo sempre più marcato nella creazione di contenuti giornalistici.
«Finora è stato tutto molto impegnativo e divertente», mi dice Abramson, che lavora a stretto contatto con il nuovo presidente e amministratore delegato della Times Co. MarkThompson, 56 anni, un inglese approdato in America lo scorso novembre dopo dieci anni trascorsi alla BBC, trasformandola in una potenza digitale con un’offerta di notizie e intrattenimento multipiattaforma e multiprodotto.
Il loro obbiettivo: «Trovare nuovi prodotti ad accesso pagato da cui trarre profitto», spiega Abramson, «e promuovere il New York Times come azienda di informazione internazionale imprescindibile, proprio come in passato il Times si spostò su scala nazionale quando nessun altro quotidiano regionale o cittadino stava neppure provandoci».
Su un piano meno vertiginoso, in redazione Abramson dice di predicare un vangelo fatto di scrittura nitida, copertura capillare e quella che chiama «la notizia dietro la notizia», anziché seguire la tradizionale tendenza del Times a presentare informazione e analisi come se venissero dalla «voce di Dio». Aggiunge: «Chi lavora in redazione sa che considero particolarmente prezioso il lavoro investigativo».
Tra le sue amicizie più strette nel mondo del giornalismo ci sono alcune donne di successo, in particolare l’editorialista di Washington Maureen Dowd, il critico televisivo Alessandra Stanley, il critico letterario Michiko Kakutani, la firma del New Yorker Jane Mayer. È in stretti rapporti anche con Vernon Jordan, amico intimo di Bill Clinton, con l’imprenditore dell’informazione Steven Brill (uno dei suoi primi datori di lavoro), con Al Hunt e Norman Pearlstine di Bloomberg Media e con Paul Steiger di ProPublica (gli ultimi tre, ex colleghi dei tempi del Wall Street Jornal). Con alcuni di loro a volte si confronta sulle difficoltà legate alla direzione del Times.
C’e mancato poco che non potesse più fare nulla di tutto questo: nel maggio del 2007, Abramson fu investita da un camion nei pressi del grattacielo del Times, riportando tratture e ferite che la costrinsero in ospedale per settimane. «Sono convinta che sfiorare la morte aiuti a relativizzare piccoli inconvenienti come un articolo di Politico o un frangente difficile con i dipendenti», dice con evidente understatement. «O forse è il semplice fatto di invecchiare che mi ha reso più brava a gestire certe situazioni».
Siamo seduti fianco a fianco su un divano modernista in pelle, nell’ampia terrazza interna che si affaccia sulla mensa screziata di sole del Times. Poco distante Keller, oggi editorialista, pranza con un collega e il figlio dell’editore, il giornalista della sezione cittadina Arthur Gregg Sulzberger (che Abramson ha appena messo a capo di una task force incaricata di escogitare nuovi modi «per ampliare la nostra offerta di informazione digitale») è a tavola con il capo del bureau di Washington David Leonhardt. A dieci metri da noi, davanti agli ascensori del quindicesimo piano, un signore di mezz’età in maniche di camicia e cravatta allentata cammina freneticamente avanti e indietro, con il cellulare attaccato all’orecchio. «Lui è David Barstow», mi dice Abramson indicando il giornalista più volte premio Pulitzer, quest’anno per una serie di articoli sul colosso Walmart, accusato di aver corrotto alcuni funzionari governativi messicani. «Io per Barstow ho una venerazione».
Mentre parliamo, alcuni dipendenti in uniforme cominciano a portare via sedie e tavoli preparando lo spazio per un evento aziendale, e di li a poco un ragazzo avvisa che dovremmo andarcene. «Sono il direttore responsabile, ho bisogno di rimanere qui», dichiara categorica Abramson. «Può dire al suo capo di venire a parlare con me, ok?».
Lui, saggiamente, si allontana. Abramson incute senza dubbio rispetto. Come discepola di Brill àll’American Lawyer e al Legal Times, e in seguito al Wall Street Journal, si è dimostrata prima una giornalista investigativa e poi una corrispondente instancabile e meticolosa. Passata alla redazione di Washington del Times durante la direzione del già citato Raines (non un suo alleato), all’indomani dello scandalo Jaison Blair che a Raines e costato il posto, si e mossa con destrezza nelle lotte interne, sgominando gli avversari grazie a tenacia e dedizione al lavoro.
Conosco Jill Abramson personalmente da quando lavoravo per il Washington Post, e col tempo ho scoperto in lei una persona concreta, intelligentissima, spiritosa e di compagnia. Mayer, che con Abramson ha frequentato a New York la Ethical Culture Fieldstone School, e decenni dopo firmato a quattro mani un libro best sellar sul giudice della Corte Suprema Clarence Thomas, la definisce «una persona estremamente dolce, attenta, gentile. Una grande amica e una madre straordinaria. Ai tempi del Legal Times era chiamata “Mamma”, perché si prendeva cura di tutti».
Ma va detto che Abramson può anche essere autoritaria, insofferente, sarcastica, severa e ostinata, un po’ come il quotidiano che dirige, la cui indiscussa eccellenza e influenza fanno il paio con un’arroganza da istituzione dei media che spesso filtra nelle interazioni dei suoi giornalisti con le creature inferiori (siano funzionari governativi, aziendali o direttori di testate concorrenti). «Un po’ mi preoccupano», dice Abramson delle accuse di arroganza, sottolineando che uno degli intenti del Times è «chiamare le istituzioni a rispondere del loro operato». (Ne ha dato le ultime prove il braccio di ferro con il governo inglese e con l’amministrazione Obama suWikileaks, sul caso Snowden e sullo scandalo dello spionaggio della National Security Agency).
Sulzberger, che ha 61 anni, dice di aver scelto Abramson «in primo luogo per le sue eccezionali doti giornalistiche. Sa riconoscere una notizia come dovrebbe saper fare il direttore di una grande testata. Ha uno sguardo ampio e profondo. E anche la stoffa del leader». Ci tiene a sottolineare di non aver quasi pensato al fatto che si trattasse di una donna, e alla portata storica che la sua nomina avrebbe avuto. «Non ha avuto alcun peso nella decisione. Che nel nostro quotidiano ci siano donne e persone di colore in posizioni di rilievo è importante, e infatti le abbiamo, ma non può essere un fattore determinante nella scelta di chi deve dirigerlo».
Venendo ad altre questioni incalzanti che la Times Co. deve affrontare sul piano aziendale, l’International Herold Tribune, quotidiano con sede a Parigi controllato prima in comproprietà con il Washington Post, poi da sola dal 2003, ha appena cambiato nome diventando lInternational New York Times. La Times Co., che è quotata in borsa, ha smesso di pagare dividendi nel 2009, e non intende ripristinarli, il che potrebbe diventare una seccatura, qualora tra gli azionisti imparentati con Sulzberger cominciassero a serpeggiare inquietudini finanziarie. Lui sostiene che non e un problema. «La famiglia ha sostenuto in modo compatto la decisione. «È evidente che preferirebbero ricevere i dividendi, ma comprendono la situazione, e il loro impegno nei confronti dell’azienda è molto forte». Poi aggiunge: «Le pressioni più forti, sinceramente, vengono dai grandi investitori».
Il futuro della redazione prevede altri licenziamenti? «Sono domande cui e pressoché impossibile rispondere», dice Sulzberger. «Se lei sa dirmi come andrà l’economia di qui a due anni, forse ne possiamo parlare». Nel frattempo si affretta a smentire le voci insistenti che prima o poi qualche magnate dei media potrebbe rilevare il Times. «La gente chiacchiera. Che sorpresa», ribatte sarcastico. Sillaba sbattendo una mano sul tavolo: «II Times non-è-in-vendita».
Alla fine del 2019 verrà anche per Ahramson,che allora avrà 65 anni, il momento di cedere il testimone, e per quel giorno Sulzberger immagina un Times «più globale, più digitale, e che abbia definitivamente espugnato la comunicazione mobile», ovvero capito come ricavare profitti da smartphone e tablet. «Ecco quali sono per noi le tre questioni cruciali».
Abramson, da parte sua, potrà anche lasciare l’incarico tra sei anni, ma non prevede affatto di ritirarsi. «Per quanto riguarda la mia vita professionale, mi ha sempre fatto un certo piacere che io e mio marito non avessimo chissà quanti soldi. Non ho mai dovuto affrontare la discussione “E se stessi a casa?”. E poi io volevo lavorare, perche mi piace molto». Conclude: «Dovranno portarmi via con i piedi in avanti, oppure tagliarmi la testa».