Simone Corti, Icon 7/11/ 2013, 13 novembre 2013
DAVID BAILEY
David Bailey è l’autore dei ritratti più nitidi, significativi e intensi del mondo della fotografia, scattati apparentemente con grande naturalezza. Ma avere una visione altrettanto nitida dell’uomo dietro la macchina è una faccenda piuttosto insidiosa. Facciamo appena in tempo ad accomodarci nel suo studio londinese e a decidere che entrambi fumeremo durante quest’intervista quando – dopo aver dato qualche carezza affettuosa dietro le orecchie a Pig, il suo Jack Russell a pelo lungo –scatta il primo campanello d’allarme. «Odio il passato!», tuona infatti il settantacinquenne Bailey sbuffando un arabesco di fumo. «Non è interessante. Ormai è passato! Non lo riavremo indietro, giusto?».
Concordo debolmente a voce alta, disapprovando con veemenza dentro di me. Perche il passato di Bailey è affascinante. Stivali a punta ed espressione truce, Bailey divenne una celebrità negli anni 60, imponendosi come archetipo del fotografo di moda. Prima di lui, la moda nel Regno Unito (al pari di tante altre cose) era predominio esclusivo di una cerchia altolocata. Ma il talento di Bailey, un ragazzo dell’East End, era talmente strabiliante – per non parlare del suo charme e del suo straordinario autocontrollo – che gli venne offerto un posto a Vogue, cuore dell’establishment della fashion industry londinese. 1 suoi primi scatti ebbero come protagonista Jean “the Shrimp” Shrimpton, un’eterea modella versione Bambi con cui Bailey ebbe una relazione, e spianarono la strada alla streetphotography nei servizi di moda – un genere in voga ancora oggi (date un’occhiata a Cara Delevingne nelle campagne della collezione F/W di DKNY). Il suo portfolio non tardò ad ampliarsi, passando dalla moda ai reportage e alla ritrattistica giornalistica (specie per l’allora brillante Sunday Times) fino agli studi per copertine di album e progetti pubblicitari. Nel frattempo Bailey sposò Catherine Deneuve e poi Marie Helvin, realizzò fantastici documentari su Visconti, Warhol e Cecil Keaton (dateci un’occhiata online, sono splendidi) e conobbe più o meno tutti quelli che contavano, dai gemelli Kray a Madre Teresa.
Ma la moda, per Bailey, è ormai decrepita da decenni. «A dire il vero è dagli anni 80 che non scatto più niente. Non ce la facevo più a trovarmi di fronte l’ennesimo abito da sera; non c’era più nulla che ritenessi interessante, ero arrivato al capolinea». E dopo qualche altra sigaretta, salta fuori che Bailey e piuttosto diffidente all’idea di chiacchierare del suo passato con gente come me: e questo, per via del modo non proprio piacevole con cui talvolta vengono riproposte le sue affermazioni. Le cose, racconta, cominciarono a guastarsi quand’era molto giovane. «Il problema è che tutti sono degli idioti, a venticinque anni. E a quell’età concedevo un mucchio di interviste senza rendermi conto che avrei dovuto convivere con quello che dicevo per il resto della mia vita. Magari dici scherzando che Catherine Deneuve è come una Ferrari, e poi quella frase te la ritrovi appiccicata addosso finché campi. Ci sono un mucchio di giornalisti astiosi che aspettano solo di cogliermi in flagrante, magari suggerendo tra le righe: “Bailey paragona le donne alle macchine”. Ma sai, a quei tempi era normale! E io di sicuro non avevo voglia di ritrovarmi con una Volkswagen tutta scassata, ti pare?».
Questo, mi affretto a rassicurarlo, oggi non deve preoccuparlo. Icon apprezza le Ferrari, sia in senso fisico che metaforico. E non ha la minima intenzione, come dicono gli americani, «di soffiargli fumo su per il c...» –ovvero di blandirlo dissimulando le nostre intenzioni. «Davvero?», risponde Bailey. «Be’, potrebbe essere fico, però. Non l’ho mai sperimentato – e ho provato davvero di tutto». Mentre Bailey scoppia a ridere di gusto, facendo sussultare le spalle, Pig alza lo sguardo e sbadiglia. «Senti», aggiunge poi. «Le femministe degli anni 70 non hanno capito un accidente. Sono pazzo delle donne, le adoro. I miei migliori amici sono donne – e tutte ex mogli o amanti o come le vuoi chiamare. Alcune non ho mai smesso di amarle. Ma sai, a volte l’amore non basta». Quando arrivo nel suo studio, Bailey e il suo assistente stanno preparando una retrospettiva che, come precisa il nostro, «sarà la più grande mostra fotografica mai presentata in questo paese». Intitolata Bailey’s Stardust, esordirà a febbraio alla National Portrait Gallery e ospiterà circa trecento foto, «Tutti ritratti», che coprono l’interò arco della sua eccezionale carriera. Vedremo finalmente i celebri, straordinari i scatti di Shrimpton, Kate Moss, Mick Jagger e Jack Nicholson, come pure estratti dei reportage in cui Bailey ha catturato l’essenza delle popolazioni della Birmania, dell’Afghanistan, del Sudan e della Papua Nuova Guinea. Poco a poco, senza nessun filo logico, cominciamo a passare da un argomento all’altro. E poco a poco, suo malgrado, Bailey comincia a raccontarmi alcune delle sue storie. In alcuni casi dall’inizio alla fine, in altri regalandone appena uno scorcio, come istantanee rubate. Ma poterle ascoltare di prima mano è, in ogni caso, un vero privilegio.
LE MIE STORIE — Alice Cooper. «È un bel tipo. Giocatore di golf. Facemmo uno shooting insieme per la copertina di un album, con un milione di dollari preso a prestito per l’occasione. Alice disse che era lo shooting migliore che avesse mai fatto. Ma avemmo un sacco di casini. A quei tempi un milione di dollari era davvero un mucchio di soldi; insomma, spari un biglietto da venti e ci ritrovammo nei guai fino al collo. Eravamo barricati nello studio, nessuno poteva entrare o uscire, fu un incubo trovare i soldi con la dogana degli Stati Uniti alle costole. Ho lasciato che se la sbrogliassero gli avvocati!».
Bob Dylan e Arnold Schwarzenegger. «Ricordo che era poggiato a quella parete. Avevamo in programma uno shooting di un’intera giornata, e gli dissi: “Bob, non e che ti va di muoverti, di spostarti un po’ da quella parte?”. E lui: “Non credo”. Pensai, Buonanotte, ci aspetta una lunga giornata. Dylan era vestito interamente di pelle, aveva un’aria ridicola. Poi, di punto in bianco, entrò mia figlia Paloma. Era davvero piccola, allora. Squadrò Dylan da testa a piedi, come se fosse una specie di lucertolone con tutta quella pelle addosso, e gli disse ciao. E all’improvviso Dylan scoppiò a ridere e disse: “Scusa, Bailey. Ho passato le ultime tre notti in bianco, ma vediamo di metterci all’opera”. Lo shooting venne piuttosto bene. A volte hai bisogno di un bambino o di un animale per rompere il ghiaccio. Fu lo stesso con Arnold. Paloma entrò nello studio doveva avere quattro anni, all’incirca ed esclamò: “Ciao, Mister ShortNigger!”. Accidenti se ruppe il ghiaccio! (“ShortNigger” vuoi dire più o meno Negro Basso, ma suona simile a Schwarzenegger, ndr.)».
Andy Warhol. «Andy Warhol era molto divertente. Credo avesse stretto un accordo in esclusiva con Avedon, promettendogli di non farsi fotografare da nessun altro. Ma era un tipo davvero divertente, e gli chiesi: “Posso fotografarti nudo?”, e lui disse: “Oh, no! Non vorrai mica che somigli a un brutto abito di Dior pieno di cuciture”. (Warhol aveva molte cicatrici, ndr). Lo conoscevo da dieci anni quando girai un documentario su di lui, e Andy disse che avrebbe accettato solo se l’avessi intervistato a letto. Il risultato fu che riuscii a farlo parlare e non credo che ci sia mai riuscito qualcun altro. Andy non parlava molto».
Cara Delevingne. «Ho appena fatto un servizio per Vogue con questa Cara Nonsocosa e Pharrell Williams. Lei se la tirava parecchio, così le ho fatto un bel cazziatone. Me ne sbatto, se è una famosa».
Luchino Visconti. «Ho sempre pensato che fosse molto charmant. Amo Fellini e Visconti perché sono agli antipodi. Visconti ti soffocava inondandoti di gusto e raffinatezza, mentre Fellini era l’uomo più pacchiano del mondo. Ma credo fossero entrambi dei grandi».
Oliver Stone. «Entrò nello studio e disse: “Ho solo cinque minuti”. Così scattai una Polaroid e gli feci: “Okay, puoi andare. Abbiamo finito”. E lui: “Che vuoi dire, abbiamo finito?”. E io: “Be’, hai detto che avevi solo cinque minuti, o ho capito male?”. Andò a finire che restò tutta la giornata».
Brigitte Bardot. «Era una che ti faceva girare la testa, accidenti. Le ho scattato delle foto magnifiche. Ma se provi a chiedere chi è a qualsiasi sbarbatello con meno di venticinque anni, ti dirà che non lo sa».
Madre Teresa di Calcutta. «Era fantastica – davvero coi piedi per terra. E un tipetto bello tosto. Ricordo che un giorno ci mettemmo a parlare del controllo delle nascite. Lei disse: “Non parlarmi della contraccezione in India! Rimangono incinte persino le mie suore!”. Ogni volta che la incontravi ti scroccava come minimo cento dollari. Così, se lavoravi con lei una settimana ti ritrovavi alleggerito di cinquecento verdoni! Come ho detto, un tipo tosto».
I Beatles. «Non ho mai capito i Beatles. Per me erano solo una boy band finché John Lennon non ha cominciato a tirar fuori un po’ di roba decente. Erano adatti ai tempi, e ne sono in qualche modo una componente irrinunciabile, ma la loro musica non mi ha mai interessato».
SULLE DONNE CHE HA AMATO – Catherine Deneuve «Eravamo buoni amici e lo siamo ancora – siamo andati a cena insieme un anno fa. Era la perfetta “donna Hitchcock”: intuivi subito che sotto la superficie c’era un vulcano. Dà l’impressione di essere un tipetto calmo e pacato, ma una barzelletta sporca le piace quanto a chiunque altro. Credo di non averlo mai detto a nessuno, è fantastico, non credi? Stavamo insieme quando girava quel cazzo di film (Bella di giorno, ndr) e così conobbi piuttosto bene Bunuel. Era sempre stato uno dei miei idoli e non mi deluse neppure allora. Ma Catherine era splendida. Un giorno mi telefona mentre sto lavorando a Parigi e mi dice: “Bailey”. E io dico: “Oh, ciao, Catherine, come stai?” E lei mi fa: “Bene. Sai, oggi abbiamo divorziato”. E io: “Ah, si?”. E lei: “Si. Così possiamo diventare amanti. Non è fantastico?”».
Diana Vreeland, la leggendaria editor americana di moda, amica di Bailey. «Mi è capitato di scattare per lei, ma era sempre un incubo. Era la mia migliore amica, però uscivamo insieme tutti i giovedì. Anche se era molto a la mode, la cosa più importante per lei era lo stile. Era un’originale, e tutti nel mondo della moda cercavano di copiarla. La gente pensava che fosse una star del cinema degli anni 30. In una delle sue autobiografie compariamo anche io e Jack (Nicholson, ndr) mentre cerchiamo di fregare i battenti della sua porta a Regent’s Park alle quattro del mattino. Volevamo svitare i battenti della casa in cui Diana aveva vissuto da bambina e regalarglieli per ricordo. Ma ci beccò la polizia. Stavamo fumando una canna mentre tentavamo di svitare quei cazzo di battenti, e lei piangeva dentro la limousine. Assieme a lei c’era anche Angelica (Houston, ndr)».
LA FASHION INDUSTRY E IL LAVORO – «La gente è ancora convinta che scatti foto a John Lennon e sia il 1964 – un po’ come Michelangelo viene sempre associato all’affresco su un soffitto. Ovviamente non ho intenzione di paragonarmi a Michelangelo – ma lo ammorbano sempre con la tiritera della Cappella Sistina! E a me tocca sorbirmi la tiritera degli anni 60. E dire che è solo una caricatura degli anni 60. Sai, in tutto quel decennio non ho mai visto una ragazza fare la go-go dancing in minigonna e stivali bianchi. Eppure per qualche motivo questa è l’immagine di quel periodo, e ormai ne faccio parte anch’io».
Anna Wintour. «Ha una certa reputazione. Ma è davvero una brava persona. Quando sei con lei, sai sempre cosa pensa di te. Non posso lavorarci insieme perché non le piace quello che faccio, ne a me piace particolarmente quello che fa lei. Ma non mi sento offeso non ha mai voluto lavorare neppure con Avedon. Non credo sia una buona cosa cercare di adattarsi, perché lei non si piegherebbe mai e neppure io. Ma mi piace come persona. E trovo anche che sia davvero molto sexy».
Sulla sessualità. «Credo sia necessario avere un lato gay per essere un buon fotografo di moda. I gay capiscono le donne. Per quanto siano emancipate, le donne continuano a essere vestite dagli uomini. Mi è sempre piaciuto circondarmi di gay: mi ispirano, trovo che siano creativi e non sono né insicuri né arroganti almeno di solito. In più, hanno un ragionevole buon gusto e senso dello stile».
Sulla fotografia. «La gente mi chiede:“Come fai a sapere dove mettere la macchina fotografica?” E io rispondo: “La puoi mettere dove vuoi. Quello che conta non è dove la posizioni, ma ciò che c’è di fronte”. Sembra che nessuno ci arrivi».
Superlavoro. «Un anno ho realizzato ottocento pagine per Condé Nast. È stato allora che mi sono fermato. Ho pensato: cazzo, non voglio più vedere un fottuto vestito finché campo!».
Tenuta di gala. «Non esiste un ritratto uguale all’altro, ma un abito lungo è un abito lungo. Lo scatto da dietro di quel Balenciaga è forse il mio scatto di moda più riuscito. Non sono mai riuscito a realizzarne uno migliore. Credo sia perché, in fondo, è l’abito perfetto. È come una scultura, e dopo è finito dritto al Metropolitan Museum. Ma ad appassionarmi più di ogni altra cosa sono i ritratti. Puoi incontrare così tante persone. Quale altro lavoro ti consente di fotografare dei cannibali, il primo ministro e una santa, tutti nella stessa settimana? È straordinario».
Arte. «O sei un artista o non lo sei. Non importa se sei un fotografo, un pittore o un parrucchiere perché ci sono parrucchieri, pochi, che considero degli artisti. La gente è così snob».
Il digitale. «Il digitale ha fatto sì che tutti gli scatti sembrino identici. E se non puoi capire chi ha scattato la foto, per me non ha senso. Riesco sempre a indovinare se una foto è di Helmut o di Avedon o di Cecil Beaton. Oggi invece, quando do un’occhiata alle riviste, mi sembrano tutte uguali!».
SULLA VITA E SULLA MORTE – Immortalità. «Chi vorrei mi impersonasse in un film sulla mia vita? Woody Allen. Preferirei Johnny Depp, ma dovrò accontentarmi di Woody».
Filosofia di vita. «Nella vita tutto accade per caso. Servono solo tre cose per andare avanti: geni forti, un discreto fatalismo e un pizzico di fortuna».
Traduzione di Silvia Montis