Alessandro Plateroti, Il Sole 24 Ore 12/11/2013, 12 novembre 2013
L’ESTERO NON È COLONIZZAZIONE
[Antonio Bulgheroni]
«Guardi, chi come me ama una corretta competizione, sia nello sport che negli affari, non può che essere preoccupato: se in Italia non si cambia regime, si rischia di finire tutti per terra». Antonio Bulgheroni, presidente di Lindt Italia e consigliere di amministrazione della holding dolciaria svizzera Lindt & Sprüngli (nonché, tra le molte cariche, anche consigliere del Gruppo Sole 24 Ore) il grido d’allarme l’aveva già lanciato da tempo. Da almeno dieci anni Bulgheroni, uno dei pochi esempi di manager-imprenditore-sportivo che ha segnato trent’anni di storia del basket varesino e italiano, va dicendo che il "giocattolo" si sta rompendo, che la situazione è esplosiva, che il rischio è di «finire tutti per terra». Tanti segnali gli hanno dato ragione sia nello sport (ultimo, la sparizione della Benetton, per non parlare della crisi del calcio), sia nella situazione del sistema Paese, con la drammatica perdita di competitività del settore industriale. E le bufere di questi giorni non fanno che avvalorare i suoi timori.
«Purtroppo - spiega Bulgheroni, classe 1943, cavaliere del lavoro e già console onorario svizzero in Italia per la provincia di Varese e Como - il Paese rischia di avvitarsi su se stesso. E non parlo solo della politica. Pochi giorni fa ho letto sui giornali delle società calcistiche scomparse negli ultimi tempi, che sono tantissime. E se lo sport che ha gli introiti maggiori è in crisi, allora che sorte aspetta gli altri? Questa situazione non è solo il risultato della "congiuntura": lo sport, come le imprese italiane, paga il prezzo di una gestione fallimentare della governance di sistema».
Su questo terreno, cioè sull’urgenza di un cambiamento radicale nella mentalità e nelle scelte del sistema Italia, Bulgheroni conta su tanti supporter: «Bisogna cambiare atteggiamento su tanti fronti - spiega l’imprenditore varesino -. In Italia abbiamo imprese di altissimo valore che competono e vincono sui mercati internazionali. Ma abbiamo anche tante aziende che perdono competitività per le inefficienze del Paese, i suoi ritardi nelle riforme e nelle infrastrutture, la burocrazia e le incertezze nella governabilità. Infine, ma questo punto potrebbe anche essere il primo, è ora di considerare gli investimenti esteri in Italia sotto la giusta prospettiva, cioè quella del lavoro che creano e della fiducia internazionale che ne deriva nei confronti del Paese». E a questo punto Bulgheroni lancia il sasso nello stagno: «Vede, io non sono uno che si arrende facilmente e oggi sto lottando per convincere la Lindt a effettuare un importante investimento nel nostro stabilimento di Induno Olona, in provincia di Varese. È un investimento importante per la Lindt, per l’occupazione nella provincia di Varese e, in generale, per l’Italia, vista la crescente diffidenza delle multinazionali. Ebbene, il nodo principale non riguarda l’Italia come mercato, ma come sistema: in Svizzera temono sempre di più gli effetti dell’instabilità politica, la lentezza delle riforme, l’incertezza delle regole, il peso della burocrazia. Oggi più che da me, è dai segnali che darà il Paese che dipenderanno gli investimenti della Lindt in Italia. E poi c’è anche una ragione di mercato: non tutti sanno che le vendite di cioccolato seguono la crescita del Pil: ovunque cresca il Pil si sviluppano i consumi di cioccolato».
Qui è necessario fare un passo indietro. Per capire meglio il profilo di Bulgheroni e il ruolo che riveste non solo per un colosso mondiale del cioccolato come Lindt ma in generale per la cultura imprenditoriale italiana bisogna partire dai primi del ’900, quando il nonno decise di offrire alle famiglie svizzere Lindt e Sprüngli l’opportunità di sbarcare in Italia attraverso un’alleanza con la sua azienda di caramelle e confetti in provincia di Varese.
«Mi emoziono sempre quando devo raccontare del mondo del cioccolato - spiega Bulgheroni, che dal 1972 al 2011 ha guidato e gestito il ramo italiano della Lindt prima di passare le deleghe operative a un amministratore delegato, Fabrizio Parini -. Credo che sia una grande fortuna, nella vita, poter parlare di questo prodotto. Lindt fu fondata nel 1845 dalla famiglia Sprüngli ed è la casa del cioccolato da più di centosessant’anni. Oggi è presente in tutto il mondo ed è leader del cioccolato premium mondiale. Nel 1890, i fondatori si associarono con Rudolph Lindt, un farmacista di Berna, il quale ebbe il merito di ideare il metodo del concaggio, che rappresenta oggi una delle fasi fondamentali nella lavorazione del cioccolato di qualità. Nel 1899 Lindt adottò la forma di società per azioni e, da allora in poi, cominciò la sua espansione in Europa, soprattutto attraverso le licenze di fabbricazione, modalità attraverso la quale venne in seguito creata la nostra azienda in Italia».
Può raccontarci meglio la genesi dell’azienda italiana?
«L’azienda fu fondata come Bulgheroni spa nel 1909 da mio nonno, che non ho avuto la fortuna di conoscere. Era una fabbrica di caramelle, confetti e pastigliaggi. Durante la guerra, a causa delle restrizioni imposte sullo zucchero e il glucosio, aveva subito una dura contrazione. Così, nel 1946 mio papà, che credo sia la persona che mi ha trasmesso il gene dell’imprenditorialità, pensò di svilupparla producendo cioccolato. Si era accorto che in Italia non era presente la quarta grande azienda di cioccolato svizzero: a Varese c’era Suchard; a Intra, sul Lago Maggiore, c’era Nestlé; a Torino c’era Tobler. Fu così che, come facevano una volta gli imprenditori, prese la macchina e si recò a Zurigo. Il presidente di Lindt allora era il dottor Sprüngli, che aveva sposato una signora di Roma, e conosceva bene la mentalità italiana. Era il 10 luglio 1946. Nel 1947 iniziavamo a fabbricare il cioccolato svizzero nei pressi di Varese. Questa è stata la nostra storia. Così Lindt, che prima era assente dal nostro mercato, ha cominciato a svilupparsi in Italia».
Questo racconto non è certamente autocelebrativo. Anzi, come lo stesso Bulgheroni tiene a precisare, è solo un modo per lanciare almeno due messaggi al Paese: il primo è che la forza dell’impresa italiana è sempre stata la capacità di individuare gli spazi liberi dei mercati per entrarci con «qualità, tradizione, origine e passione»; il secondo è che le grandi imprese, le multinazionali, non vengono in Italia per colonizzare, ma per crescere e far crescere le imprese in cui investono. «L’esempio della mia famiglia - aggiunge Bulgheroni - può aiutare a capire meglio l’importanza di quanto dico. Cominciai a lavorare in azienda il 6 novembre 1968. Allora, mentre frequentavo ancora l’università, mio padre non si sentì bene e mi chiese di aiutarlo in azienda. La verità l’ho capita dopo: mio papà aveva solo paura che io me ne andassi da un’altra parte e non proseguissi il lavoro nell’azienda di famiglia. Ho continuato a giocare a pallacanestro, la mia passione, fino al ’70, quando sono andato da mio papà per dirgli che se avesse voluto tenermi a lavorare nell’azienda di famiglia avrei smesso di giocare a pallacanestro, la cosa che mi piaceva di più al mondo, ma avrebbe dovuto offrirmi la possibilità di "misurarmi". Penso che questa volontà di "misurarmi" nelle sfide mi derivi dallo sport. Devo ammettere che mio padre fu eccezionale. Mi valutò immediatamente, senza farmelo capire, e nel 1972 mi affidò la carica di amministratore delegato. Lui mantenne la carica di presidente, ma senza recarsi più in azienda».
Come è maturata la decisione di vendere alla Lindt?
«Nel 1992, due anni dopo la scomparsa di mio padre, l’allora dottor Sprüngli, figlio del fondatore che aveva stretto l’accordo con mio padre, mi chiese di acquistare l’azienda, perché volevano costituire una holding. Sul piano personale quel momento è stato forse il più difficile della mia vita. Io sono figlio unico e i miei figli avevano circa vent’anni e ovviamente il valore dell’azienda era abbastanza consistente. Decisi allora di andare dal dottor Sprüngli e gli dissi che non volevo dei soldi. Non avrei mai pensato di monetizzare quello che era stato il lavoro di mio padre per una vita e il mio per vent’anni. Inoltre mi resi conto che uno come me, che è nato nel cioccolato, non può fare il manager da qualche altra parte. Da queste riflessioni scaturì la decisione di accordare un cambio di azioni. La famiglia Sprüngli mi chiese di rimanere continuando a ricoprire la carica di presidente e amministratore delegato per dieci anni. In realtà ho proseguito per diciotto anni. Due anni fa, e questa è una regola per me molto importante, prima che qualcuno mi battesse la mano sulla spalla dicendomi che era giunto il momento di andarsene, me ne sono andato io».
Per modo di dire è andato via...
«Mettiamola così: il salto familiare da imprenditori a manager e infine ad azionisti del gruppo Lindt ha trasformato una piccola azienda italiana nel fulcro industriale di un colosso multinazionale. E la mia famiglia è oggi azionista di una realtà dove il padrone non sono più le famiglie Lindt e Sprüngli, che hanno venduto le loro azioni, ma addirittura il fondo pensioni del gruppo che oggi detiene il 25% del capitale. Io faccio parte del board e come membro del comitato esecutivo del gruppo partecipo alla definizione di piani e strategie».
Come ha reagito la sua famiglia a questa trasformazione di ruolo? Siete piccoli azionisti di un colosso ma non avete più un’azienda di famiglia...
«Il salto di qualità ha riguardato tutti e sono orgoglioso delle scelte fatte dai miei figli. Edoardo, nato nel 1970, ha lavorato 6 anni nella holding Lindt e oggi è artefice dell’espansione dei negozi monomarca del gruppo; Gianantonio, nato nel 1971, si occupa delle altre attività di famiglia dopo aver lavorato come banchiere del Santander; Anna, nata nel 1977, è dirigente del colosso delle bevande InBev e lavora a Brema. Sotto un certo profilo, visto che la famiglia Lindt ha venduto, gli eredi del nucleo industriale storico del gruppo oggi siamo noi».
Dopo la decisione di vendere, quale è stato l’evento più significativo nel rapporto con la Lindt?
«C’è soprattutto un’impresa della quale vado molto orgoglioso. Prima di dimettermi dalla carica di amministratore, sono riuscito a convincere il gruppo a investire in Italia per sviluppare gli impianti di fabbricazione delle Boule Lindor per tutto il gruppo Lindt. La soddisfazione più grande è che, pur nel contesto del nostro Paese, siamo l’azienda che riesce a produrre le Boule Lindor al minor costo. Non è dunque completamente vero che in Italia non si possano fare le cose: se le fai bene, pur in assenza di alcun aiuto, puoi arrivare lo stesso a ottenere dei buoni risultati. Oggi produciamo nello stabilimento di Induno Olona circa 28mila tonnellate di cioccolato, di cui più del 70% per cento per il gruppo Lindt; quando sono entrato in azienda erano appena duecento».