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 2013  novembre 12 Martedì calendario

PECHINO AL BIVIO TRA BOOM E PACE SOCIALE


Mentre a Pechino sta per concludersi la terza sessione plenaria del Comitato centrale eletto all’ultimo congresso (il 18°) del Partito comunista, la Cina è di fronte a un bivio. La crescita degli ultimi anni è straordinaria, senza precedenti nella storia. Ma altrettanto straordinari sono gli squilibri economici del Celeste Impero: la Cina ha sostenuto la sua crescita investendo non meno della metà del suo Pil, e nessun Paese è mai riuscito a investire produttivamente per un periodo prolungato più di un terzo del proprio reddito nazionale; i consumi delle famiglie pesano solo per un terzo del Pil, la metà che in un’economia normale. Ai bassi livelli di consumo si associa un allargamento della disuguaglianza, tra le campagne e le città e tra le élite politiche e le masse.

I laureati con aspirazioni più alte non riescono a trovare i lavori d’ufficio che cercano e non accettano i lavori in fabbrica che gli vengono offerti. Il malcontento della popolazione, espresso nei blog o in dimostrazioni spontanee, è in aumento.
I leader cinesi tutto questo lo sanno: sono consapevoli che è necessario riequilibrare l’economia spostando l’asse dagli investimenti ai consumi, e sono consapevoli che questo significa sviluppare il settore dei servizi, per creare posti di lavoro interessanti per i colletti bianchi. E sono consapevoli anche che c’è bisogno di costruire una rete di sicurezza sociale e rafforzare i diritti di proprietà nelle campagne.
Ma il timore delle autorità di Pechino è che il passaggio dagli investimenti ai consumi, e dal manifatturiero ai servizi, possa tradursi in una crescita più bassa: meno investimenti significheranno meno intensificazione del capitale, espandere il settore dei servizi, dove la produttività è bassa, farà rallentare la produzione complessiva e se la crescita dovesse decelerare ulteriormente (il tasso annuo è già sceso dal 10 al 7,5 per cento), il malcontento sociale potrebbe aumentare.
Tutto questo potrebbe indurre alla prudenza i vertici, ritardando le riforme necessarie e ingigantendo ulteriormente gli squilibri. Ma non si potrà andare avanti così all’infinito: prima o poi la bomba a orologeria esploderà e il tasso di crescita precipiterà.
E allora dove dovrebbero guardare i leader cinesi per affrontare queste sfide?
Per quanto sembri inverosimile, l’esperienza del Regno Unito può essere di ispirazione per Pechino. Come l’industrializzazione della Cina odierna non ha precedenti nella storia (nessun Paese in via di sviluppo era mai cresciuto senza interruzione di oltre il 10 per cento annuo per almeno vent’anni), anche l’industrializzazione britannica di due secoli fa era un fenomeno inedito.
La Gran Bretagna fu la patria della rivoluzione industriale: la crescita economica in quel periodo fu più rapida di qualsiasi altra economia nella storia dell’umanità fino ad allora.
Ma quella crescita imponente creò problemi gravi: la disuguaglianza aumentava (stando ai recenti contributi accademici del cosiddetto "dibattito sul tenore di vita"), erano sempre più numerosi i piccoli contadini che perdevano i loro terreni a causa dell’enclosure movement (l’introduzione di leggi che imponevano la recinzione delle terre prima destinate a uso comune) e c’era scontento per l’inquinamento dei centri urbani e le disumane condizioni di lavoro in quelle fabbriche che il poeta William Blake definiva "oscuri satanici opifici".
Le esplosioni di rabbia popolare erano inevitabili: basta ricordare i luddisti, che reagirono alla meccanizzazione dell’industria tessile nei primi dell’Ottocento distruggendo le nuove tecnologie, e gli swing riots, quando i braccianti agricoli fecero a pezzi le trebbiatrici.
I politici britannici risposero riformando la rete di sicurezza sociale. Nel 1834, la New Poor Law introdusse criteri nazionali per l’assistenza sociale. Di fronte alle forti polemiche, si rinunciò a obbligare i poveri a risiedere nelle opprimenti workhouse (ospizi per nullatenenti) e si potenziò il cosiddetto outdoor relief, la distribuzione di cibo, soldi e abiti ai poveri, giudicato il metodo meno costoso per affrontare il problema della povertà.
Oltre a questo furono realizzate riforme politiche per dare voce all’emergente classe media. Nel 1832 una riforma elettorale concesse il diritto di voto agli individui con un patrimonio di almeno 10 sterline (non una somma indifferente, ma abbastanza bassa da garantire il voto ai ceti medi). La stessa legge creò un sistema di tribunali speciali per dirimere le controversie sulla registrazione degli elettori.
Insieme alle riforme politiche arrivarono anche misure per combattere gli squilibri economici. L’abolizione, nel 1946, delle Corn Laws, che avevano tenuto in piedi il declinante settore agricolo, facilitò i cambiamenti strutturali, prima in favore del settore manifatturiero e poi del terziario (in particolare i servizi finanziari).
Per concludere, i politici britannici non cercarono di difendere a ogni costo la posizione di economia mondiale a più alto tasso di crescita. Certo, quando gli Stati Uniti, la Germania e altri Paesi superarono la Gran Bretagna, alla fine del XIX secolo, gli piovvero addosso critiche, ma evitando di contrastare la naturale evoluzione dell’economia dall’agricoltura all’industria, e infine ai servizi, consentirono al loro Paese di godere di almeno un secolo di crescita economica sostenuta.
L’esperienza ottocentesca di un’isola ventosa al largo della costa nordoccidentale dell’Europa, per quanto possa sembrare inverosimile, può essere di insegnamento per la Cina. Ma se i dirigenti riuniti a Pechino per il plenum del comitato centrale riusciranno a fare metà di quello che fecero i loro predecessori inglesi, sarà già un’ottima cosa.
(Traduzione di Fabio Galimberti)