Anna Zafesova, La Stampa 12/11/2013, 12 novembre 2013
ASSEDIO DI LENINGRADO LA VERITÀ PROIBITA
«Nessuno è stato dimenticato e nulla è stato dimenticato». Queste rime di Olga Berggol’c sono incise nel marmo del cimitero Piskariovskoe, dove è sepolto mezzo milione di vittime dell’assedio di Leningrado. Nelle fosse comuni nel tremendo inverno 1941-42 venivano gettati 10 mila corpi al giorno. Lì ci sono anche i resti di Nikolai, il marito della poetessa. Lei, la voce dei sopravvissuti, aveva chiesto di essere sepolta lì, ma quando è morta, nel 1975, i dirigenti del partito gliel’hanno negato. Perché Olga Berggol’c era sì la musa e l’eroina di una delle più grandi tragedie della Seconda Guerra mondiale, ma era anche un personaggio che il regime considerava inaffidabile, una «doppiogiochista» come le aveva urlato il magistrato dell’Nkvd che la interrogava in carcere, che cercava di «non raccontare menzogne, se non quelle imposte dalla censura».
Una doppia verità e una doppia vita: per 900 giorni la sua voce è arrivata via radio nelle case buie e fredde dove gli abitanti della città stretta d’assedio dai tedeschi stavano morendo di fame e terrore, leggeva poesie che inneggiavano al loro coraggio, li incitava a continuare a lottare. E nello stesso tempo, anche lei congelata e denutrita, scriveva nel suo diario quello che non poteva raccontare: la morte onnipresente, la fame, la disperazione, e «i meschini rituali del potere e del partito che suscitano una penosa vergogna» e continuano imperterriti mentre la gente comincia a cadere per strada, stremata, e mentre le truppe di Hitler avanzano, «come hanno fatto a portare le cose a questo punto!». Una verità amara sulla guerra, così diversa dalla trionfalistica propaganda che lei stessa ascoltava e produceva alla radio, da affidarla solo ai diari segreti che a un certo punto seppellì in cortile: «La dedica ai posteri non sono riuscita a scriverla. E poi... non è per loro che mi spremo l’anima... ma per me stessa, per noi, che viviamo qui, oggi, incancreniti nella menzogna».
Dopo la morte della poetessa i diari vengono sigillati negli archivi, file segreti, inaccessibili. Solo dopo la fine dell’Urss ne vengono pubblicati alcuni stralci, che oggi per la prima volta appaiono in italiano (Diario proibito, Marsilio, pp. 159, € 14). Una testimonianza appassionata e atroce, che registra l’abituarsi all’orrore quotidiano, dal terrore cieco per le prime bombe, nel settembre 1941, «uccidetemi pure, ma non terrorizzatemi con quel fischio maledetto», fino alla routine di «otto allarmi aerei al giorno» per i quali non si scende più nemmeno nel rifugio. E poi la fame, onnipresente, straziante. Quando gli amici riusciranno a farla scappare, ormai ridotta alla distrofia alimentare, a Mosca, rilegge i diari e si vergogna di avere «scritto solo di cibo, un continuo, ossessivo delirio della fame». Il marito Nikolai muore, denutrito, e diventa normale ricordarsi di «scrivere delle lettere alle persone che mi sono care, forse saranno le mie ultime lettere», in una città dove si muore ogni giorno, sotto le bombe e, accasciandosi direttamente sui marciapiedi gelati, di distrofia. Parola che viene proibita, e gli ospedali nei certificati di morte mettono diagnosi false, per non ammettere che il governo sta lasciando morire di fame i leningradesi (ne periranno quasi 700 mila, senza contare i 20 mila morti sotto le bombe). Si parla di cannibalismo, genitori che mangiano i figli, cacciatori che adescano bambini per strada, mentre Mosca proibisce di inviare viveri agli assediati perché c’è già il governo che «sta provvedendo».
Un incubo che fa sobbalzare la Berggol’c quando, a Mosca, sente parlare di «eroismo» di Leningrado: «Strombazzando il nostro coraggio nascondono al popolo la verità su di noi». La città che il regime considera focolaio dell’opposizione è odiata da Stalin, che sembra quasi cogliere l’occasione per piegarla, e sotto le bombe tedesche continua implacabile a funzionare la macchina della repressione. Il padre di Olga viene mandato al confino, nonostante come medico fosse utile in città: «non è piaciuto il suo cognome» di origine tedesca. In un «cantuccio buio buio, assolutamente dostoevskiano», sta morendo di fame e paura Anna Achmatova, la grande poetessa bollata come «reazionaria» dal partito.
La stessa Olga è stata miracolosamente rilasciata dal carcere, dopo aver perso il bambino che aspettava: «Mi hanno strappato l’anima, rovistandovi dentro con le loro fetide dita, e dopo averla oltraggiata, insudiciata e ricacciata dentro, ora mi dicono “Vivi!”». Da fervente comunista che aveva esordito a 14 anni con una poesia sulla morte di Lenin, passa all’odio per il regime e per Stalin, e vive nel terrore dell’arresto, che paradossalmente viene alleviato dalla convivenza quotidiana con la morte. Decide di rientrare a Leningrado, «a morire», ma anche a vivere, al suo nuovo amore, e al martirio della sua città, a descrivere i bambini con «le mani scheletriche», lo stridio sul ghiaccio delle slitte che portano i cadaveri al cimitero, gli uomini e le donne che continuano a lavorare e a sperare nonostante tutto: «La paura della morte è scomparsa».