Niccolò Zancan, La Stampa 12/11/2013, 12 novembre 2013
CASELLI DICE ADDIO ALLA TOGA DOPO LA LOTTA A BR E MAFIA
Il magistrato che ha combattuto le due guerre italiane, quella contro il terrorismo e quella contro la mafia, esce di scena con una lettera di sette righe. «Ecco una notizia che non avrei mai voluto comunicarvi, ma tant’è: ormai ci siamo. Oggi ho formalizzato la domanda di pensionamento a partire dal 28 dicembre 2013. Mi spiace lasciare il lavoro di Procura, ma ancor più lasciare tanti amici, cioè voi tutti che avete fortemente contribuito - in maniera decisiva - a fare del nostro ufficio un sistema funzionante a livelli di eccellenza. Ve ne sono e ve ne sarò sempre immensamente grato. Auguro ad ognuno di voi tutto quel che spera dal suo futuro. Spero che avremo modo di salutarci più direttamente prima della scadenza. Per ora, ancora grazie e un grande abbraccio. Giancarlo Caselli».
Alle sei di sera è a casa. La casa di sempre. Gli agenti di scorta sono all’angolo con corso Peschiera. Il procuratore capo Caselli vuole che sembri una sera qualunque. La moglie Laura, insegnante di matematica in pensione, accende il computer e inoltra la lettere al giornalista: «L’ha mandata in copia anche a me. Se devo essere sincera, avrei voluto che si decidesse molto prima...». Accenna un sorriso, lo chiama «Gianc». In serata andranno insieme al concerto della Filarmonica del Teatro Regio, come programmato da tempo.
Giancarlo Caselli ha deciso di lasciare l’incarico dopo aver meditato a lungo. Va in pensione con quattro mesi di anticipo sulla data prevista. Lo fa al termine di un periodo difficile, che lo ha visto al centro di una campagna d’odio fomentata dalla frangia estremista del movimento No Tav. Va in pensione dopo essere uscito anche da Magistratura Democratica, non condividendo la scelta di ospitare uno scritto sugli Anni di Piombo firmato da Erri De Luca. Ma chi ha sentito il procuratore in queste ore, sgombra il campo dai dubbi. «Gli ultimi fatti non c’entrano con la decisione. Non c’è amarezza da parte sua. Ma la serenità di chi sa di aver sempre fatto solo il suo dovere». Gian Carlo Caselli, 74 anni, piemontese di Alessandria, figlio di contadini, saluta alla sua maniera: «Grazie. Ci sarà l’occasione di commentare...».
La sua storia parla per lui. Fin dall’inizio. Maturità classica a liceo salesiano Valsalice, laurea in Giurisprudenza a Torino nel 1964. Nel «fatidico» ’68 ha 27 anni. «Non l’ho fatto - ha raccontato varie volte - sono sempre stato un secchione a scuola e sul lavoro». Il secchione Caselli accorre la notte dell’assassinio del suo maestro Bruno Caccia. Diventa giudice istruttore. Passa dalla criminalità organizzata al primo processo per terrorismo. È il sequestro del segretario provinciale del Cisnal, Bruno Labate. Segue quello del capo del personale della Fiat, Ettore Amerio. Il terzo sarà il sostituto procuratore di Genova Mario Sossi e stravolgerà per sempre gli equilibri, inaugurando di fatto la stagione degli omicidi. Sono anni di funerali. Di processi blindati. Di famiglie sacrificate. Di coraggio quotidiano. Anni sotto scorta. Come quelli della seconda guerra. Gian Carlo Caselli diventa procuratore capo a Palermo il 15 gennaio 1993, durante la stagione delle stragi.
Un amico gli è sempre rimasto a fianco. È don Luigi Ciotti. Negli anni di lotta alla mafia va a trovarlo nelle torri blindate del quartiere la Favorita. Sono insieme a Corleone per la prima manifestazione di Libera, con Caselli costretto ad arrivare steso nel sedile posteriore di un’auto caricata su una bisarca. «Ricordo i ferragosti passati insieme, quando ci trovavamo di nascosto a mangiare con le rispettive scorte». Si erano conosciuti a un funerale. «Lungo tutta la sua carriera, Gian Carlo Caselli ha sempre cercato di saldare legalità e giustizia. Ha fatto rispettare le leggi, come gli imponeva il suo ruolo, senza mai dimenticare che il fine ultimo della legge è il bene comune. Credo che tutti dobbiamo provare gratitudine per quello che ha fatto. Nel suo caso l’espressione “servitore dello Stato” non è retorica». L’aneddotica già fiorisce: la passione per il calcio e per il Toro, i gialli di Camilleri, i racconti di Cechov, la scrittura, la passione civile. L’hanno chiamato «toga rossa». È il magistrato che ha osato portare a giudizio Giulio Andreotti. «Soltanto una volta gli ho visto quasi perdere il controllo - racconta don Ciotti - eravamo alla partita di calcio dei suoi figli su un campetto di periferia. Si è accalorato al punto che sono dovuto scappare, prima di rischiare di essere coinvolto in una rissa».