David Allegranti, Europa 11/11/2013, 11 novembre 2013
IL MESTIERE DELL’INVIATO, DOVE NON ARRIVANO I TWEET
Il giornalismo da trespolo è quello di chi non si stacca mai dai computer, dalla scrivania, da Twitter, da Facebook, il giornalismo da trespolo troppo veloce vive costantemente in un gigantesco Cnn effect, solo che al posto della telecamera puntata in diretta sull’“evento” ci sono i tweet, i flash, il flusso continuo di aggiornamenti, dati sparati e buttati nel cumulo d’informazioni, un overload di notizie che prima di assalire il lettore assale chi le produce.
Marco Imarisio fa un altro mestiere. Marco Imarisio racconta il dettaglio, la cosa più preziosa per un giornalista, «il dettaglio che si avvita su se stesso tra le pagine dei quotidiani; il dettaglio che non si lascia inghiottire dal piombo». Il dettaglio «che è l’indicibile», scrive Andrea Gentile nell’introduzione a Italia ventunesimo secolo. Volti e storie dagli anni dell’abisso (Il Saggiatore), raccolta di quindici anni di articoli di Imarisio per il Corriere della Sera. Il dettaglio che è «il microscopico, l’enorme: si infrange sulla sensibilità del giornalista: prismatico va incontro ai lettori. È questo, forse, ancora oggi, il senso ultimo del giornalista, dell’inviato: ciò che qualunque diretta televisiva non può dare».
Attraverso i pezzi di Imarisio, firma di punta del Corriere, si rende così omaggio alla figura dell’inviato, forse il mestiere migliore per chi ama questo lavoro; che ti regala solitudini, notti all’addiaccio, stanchezza, sofferenza nel raccontare mostruosità che non vorresti mai vedere. Ma che ti permette, come nel caso di Imarisio, di attraversare quindici anni di storia italiana e costruire così un gigantesco reportage, lungo 450 pagine.
Dove c’è l’Hotel Nettuno di Catania, quello in cui l’ex barista Vito Di Maggio disse di aver visto Giulio Andreotti insieme ai boss mafiosi. Dove c’è la tragedia di Genova e del G8, quel 2001 che cambiò la storia non solo della città e inchiodò una generazione intera a un maledetto mese di luglio e la travolse, portandole via giovinezza e spensieratezza. Ci sono Erika e Omar, in una stanza dove il procuratore che sta conducendo l’inchiesta sulla morte della madre e del fratellino di lei ha messo videocamere e cimici per capire dove sta il vero e dove sta il falso. C’è lei lucidissima mentre disegna albanesi che non esistono e lui che è completamente succube e pare non accorgersi bene di quel che gli succede.
C’è il ritorno di Umberto Bossi dopo l’assenza per la lunga malattia, il coro in suo nome sul pratone di Pontida. C’è Theo Van Gogh, ammazzato da un marocchino nato in Olanda, per colpa di un suo documentario, Submission, sulla condizione della donna musulmana. Italia ventunesimo secolo è il romanzo tragico del nostro paese; quello della ThyssenKrupp; quello dell’ultimo nazista, Giacomino Maresia, incontrato nel 2004 a ottant’anni, l’ultimo italiano ad aver fatto parte delle SS (XVI divisione Reichsführer per la precisione, la più sanguinaria); quello di Eluana Englaro che muore a 38 anni dopo aver passato gli ultimi 17 in coma e con lei sembra scomparire anche un po’ di pietà, mentre attorno s’accapigliano politici e preti, e invece ci sarebbe bisogno solo di silenzio.
È il paese de L’Aquila stroncata dal terremoto, «non morta, ma completamente svuotata di vita».
Ecco, forse non c’è diretta televisiva e non c’è aggiornamento istantaneo che regga di fronte al dettaglio fatto esplodere davanti al lettore, non c’è niente come il racconto del cronista che in cento righe ti porta dove tu non sei.