Viviano Domenici, Corriere della Sera - Beauty 7/11/2013, 7 novembre 2013
IL PALLORE ARISTOCRATICO? LO INSEGNARONO GLI ETRUSCHI
Ramses III, che regnò sull’Egitto tra il 1186 e il 1155, era sul trono da ventinove anni quando dovette affrontare una serie di scioperi che gli operai, addetti alla realizzazione delle tombe della necropoli reale, proclamarono a causa del ritardo nella consegna del salario (alimenti, vestiario e altri beni di consumo), previsto dal loro «contratto di lavoro». Lo scriba reale annotò con cura quello che gli scioperanti dissero ai funzionari reali: «Siamo venuti qui (a protestare) per la fame e la sete; non ci sono vesti, né unguenti, né pesce, ne verdura. Informate di questo il Faraone nostro buon signore, e il visir nostro -superiore, affinché possano provvedere al nostro sostentamento». Quindi uno sciopero anche per ottenere gli unguenti dovuti: una richiesta solo apparentemente bizzarra se si considera che lavorare sotto il sole del deserto egiziano rendeva indispensabile la proteggersi la pelle.
Lo stretto legame tra cosmetici e salute e benessere del corpo va ricercato nella più lontana preistoria quando gli uomini cominciarono a spalmarsi addosso ceneri, fanghi, ocre di diversi colori e sostanze vegetali per difendersi dal sole, dal vento e soprattutto da insetti e parassiti. Ma rapidamente la pittura corporale assunse profondi significati simbolici e sociali, mentre il piacere del bello fece il resto trasformando queste pratiche in una raffinata arte del corpo di cui proprio l’Egitto ci ha lasciato le testimonianze più evidenti dei tentativi — non sempre riusciti — di coniugare la cosmesi con la salute.
L’esempio più interessante in questo senso è dato dal trucco degli occhi, praticato sia da uomini sia donne fin dal V millennio avanti Cristo. Tra le rovine di alcuni villaggi di quell’epoca, infatti, sono stati rinvenuti sacchettini di pelle con polvere di malachite e scodelline di pietra («palette») in cui si stemperavano le sostanze da applicare sulle palpebre. È significativo che il nome geroglifico delle «palette» derivi dalla stessa radice della parola «proteggere»; mentre sui contenitori di ceramica che col tempo sostituirono i vecchi sacchettini di pelle per le polveri cosmetiche, vi sono inscrizioni come «buono per la vista». I prodotti per gli occhi erano sostanzialmente due: nero e verde. Il nero, ottenuto con la galena, veniva steso sulle ciglia per accentuare la profondità dello sguardo e nello stesso tempo attenuare la luce solare; poi il verde era utilizzata la polvere di malachite che, impastata con acqua e sostanze gommose, veniva applicata sulle palpebre per far risaltare l’occhio e difenderlo dalle insidie tipiche del clima caldo e secco (vento, sabbia, mosche). Entrambi i cosmetici avevano quindi un’ipotetica funzione-protettivo-curativa, oltre che estetica. L’occhio del dio Horus, che era stato curato e guarito dal dio Thot, era il simbolo dei medici, assicurava salute, fecondità e chiaroveggenza; disegnato come geroglifico si traduce letteralmente «ungere con collirio».
Le informazioni più interessanti sulla cosmesi nel mondo etrusco ci sono arrivate grazie a una quantità di raffinate testimonianze archeologiche tra cui le belle pitture di Tarquinia, dove si vedono donne con la pelle più chiara di quella degli uomini. Una differenza certamente dovuta a un diverso stile di vita che divenne un preciso segno di status sociale: più chiara era la pelle, più aristocratica e attraente la signora. Quindi volti diafani a tutti i costi e chi non aveva un bei pallore naturale se lo procurava con cosmetici adatti. Stesso orientamento nel mondo greco-romano dove il fenomeno si estremizzò a tal punto che le signore ricorrevano a creme a base di biacca, una polvere ottenuta dall’ossidazione del piombo, metallo decisamente tossico, ma Greci e Romani non pensavano potesse avvelenare l’organismo attraversando la pelle. Le signore ne vedevano comunque gli effetti negativi quando si toglievano quell’intonaco bianco dalla faccia, ma pensavano di rimediare ai danni con maschere per la notte preparate con una pappa di pane e latte; che deprimevano i mariti e scatenavano le frecciate dei poeti satirici. Ovidio invece stava sempre dalla pane delle donne e per ottenere una faccia color avorio, evitando il piombo, consigliava ricette così elaborate che occorrevano giorni e settimane di lavoro in casa per prepararle. Forse era quello il vero segreto per ottenere un volto pallido.