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 2013  novembre 11 Lunedì calendario

IL «MAESTRO» BULGAKOV UN VEGGENTE CHE RACCONTÒ LA RUSSIA DELLO ZAR PUTIN


Fra gli scrittori russi vissuti al tempo della Rivoluzione d’Ot­tobre, Michail Bulgakov fu quello a cui toccò la sorte bef­farda d’essere seppellito da vivo. Quasi nulla dei suoi romanzi e racconti soprav­visse alla censura e i s­uoi tentativi di auto­re teatrale sortirono lo stesso effetto. Mo­rì che aveva quasi 50 anni, caso limite di un autore che misurò la sua grandezza non sulla base del pubblico e/o della cri­tica, ma su quello del divieto e la sua osti­nazione a scrivere, contro tutti e nono­stante tutto, è una delle più alte dichiara­zioni di fede nella letteratura. «I mano­scritti non bruciano» si legge in Il Mae­stro e Margherita , il suo romanzo più fa­moso, ovvero i regimi passano, i dittato­ri muoiono, ma l’arte resiste grazie a un fuoco interno che non la divora, ma la il­lumina. Bulgakov conosceva il suo valo­re e ciò gli permise di andare avanti. Co­me scrisse Anna Achmatova alla sua morte: «Tu così duramente sei vissuto e fino all’ultimo hai serbato/ un magnifi­co disprezzo ». Scritto negli anni ’30, Il Maestro e Mar­gherita fu pubblicato solo negli anni ’ 60: in edizione integrale uscì prima in Euro­pa che in Unione Sovietica dove, nono­stante il «disgelo»,il fuoco censorio arde­va e il romanzo continuava a fare paura.
Adesso che il comunismo è un relitto del­la storia, è interessante cercare di capire come e perché il suo fascino persista e che cosa nella Russia di Putin ne faccia un libro di culto. L’uscita della monu­mentale biografia di Marietta Cudako­va, presidente della Fondazione Bul­gakov ( Michail Bulgakov. Cronaca di una vita , Odoya, pagg. 476, euro 30), in un’edizione più amplia rispetto a quella classica di fine anni ’80,testimonia di un fervore che in patria raggiunse qualche anno fa il parossismo, con la riduzione tv del capolavoro. Dieci ore, 9 puntate, 200 attori, 40 milioni di spettatori, maxi­schermi nei ristoranti e nei bar, orari ri­dotti nei negozi e negli uffici per permet­tere agli impiegati di non perdersi ogni settimana le scene iniziali, la casa-mu­seo al numero 10 della Bolhshaja Sado­vaja, a Mosca, dove nel romanzo si instal­la il Diavolo, Woland, e nella realtà visse l’autore,meta di un continuo flusso di vi­sitatori.
Il Maestro e Margherita si presta a una
doppia chiave di lettura, storicistica da un lato,legata all’attualità dall’altro.Nel primo caso, il romanzo è uno straordina­rio esempio di «come eravamo»,l’auto­bio­grafia di una nazione almeno sino al­la caduta del muro di Berlino: la coabita­zione e la Nomenklatura, la burocrazia ossessiva quanto parassita, la censura occhiuta e il politicamente corretto, la pratica della delazione e la sfrontatezza scientista, l’irrisione della religione e la segretezza come arma di potere. Un po­polo mistico, legato a usi, costumi, tradi­zioni ancestrali, si ritrovò dall’oggi al do­mani trasformato in un esercito proleta­rio la cui esistenza era scandita da piani quinquennali, il cui orizzonte era simbo­leggiato dalla conquista del socialismo. Nessuna nazione come l’Urss sopportò una tensione così forte tra un futuro an­nuncia­to e mai raggiunto e una quotidia­nità militarizzata e fatta di stenti, sotter­fugi, meschinità. Nessuna nazione co­me l’Urss fu così a lungo in balia di un po­tere cieco e che però vedeva tutto, assolu­to e imperscrutabile, irrazionale e tutta­via dotato di una logica ferrea. Nelle vi­cende del Maestro, un intellettuale add­i­tato come nemico del popolo senza che il popolo sappia cosa ha scritto, della sua innamorata Margherita, condannata a un matrimonio senza amore in una società dove non esistono più rapporti umani perché tutti sospettanoditutti, entram­bi circondati da un for­micaio umano in cui ciascuno pensa per sé e si arrabatta a scavarsi una nic­chia il più possibi­le confortevole, non importa se a danno del vicino, dell’amico,del pa­rente, c’è il ritratto di un’epoca, una società, un’ideologia.
Qui si inseri­sce l’altro ele­mento, quello della contempo­raneità. Usciti dal comunismo, i russi si sono ritro­vati in una realtà che mima le società liberali, ma mantie­ne i tratti di dispotismo asiatico che già connaturarono l’eredità zarista.Si ritro­va come presidente un ex capo dei Servi­zi segreti, assiste ad ascese finanziarie impressionanti di cui nessuno conosce le origini e che spesso crollano nel mo­mento in cui entrano in collisione con il potere politico, sperimenta un tasso di criminalità che ha pochi rivali nel mon­do, verifica l’inadeguatezza delle infra­strutture statali, luce, gas, acqua, telefo­no, a fronte di una campagna ossessiva che magnifica il libero mercato e l’inizia­tiva privata, è stretta fra richiami all’orgo­glio e alla grandezza nazionali, repres­sioni militari di cui sa ben poco, esibizio­ni­di forza dietro cui si rivelano debolez­ze endemiche, sfiducia, corruzione.
Come in uno specchio rovesciato, la Russia putiniana si accorge che la Rus­sia staliniana di Bulgakov ha cambiato nome e professione di molti protagoni­sti, ma ne ha conservato il modo di esse­re e le finalità: il burocrate che sognava di occupare la casa di un altro «compa­gno » adesso è lo speculatore immobilia­re; la compagna-cameriera che si vole­va far bella con i vestiti della compagna­padrona, esponente della nomenklatu­ra, adesso ha una boutique ed è lei la no­menklatura; il medico ciarlatano è dive­nuto una risorsa della scienza; il funzio­nario avido una risorsa della democra­zia. Quanto a Woland, ovvero a Satana, grande protagonista del romanzo, quel­lo che ieri poteva essere letto come un ciarlatano dotato di carisma, un politico che muoveva i fili della sua recita e nella cui figura si annullava un’umanità fatta di oscurantismo, miseria, ignoranza, il trionfo insomma della menzogna, di­venta oggi l’altra faccia della modernità, l’idea che alla scomparsa di un regime non abbia fatto da contraltare una nuo­va politica, ma una non politica, il trion­fo degli appetiti privati, la logica crimina­le del soddisfacimento dei propri biso­gni.
È probabile che la modernità di Bul­gakov derivi proprio dalla sua estraneità al comunismo. Lì dove Majakovsky e Ba­bel scontano sul­la propria vita e sulla propria arte l’illusione di aver creduto nella rivo­luzione e fuori di essa non sono più leggibili, questo scrittore che dalla rivoluzione si vi­de condannato al silenzio era porta­tore di qualcosa che andava di là dal contingente, eroico e/o meschino che fosse. Il suo misticismo («io sono uno scrittore mistico. Mi servo di tinte cupe e mistiche per rappresentare le in­numerevoli mostruosità della nostra vi­ta quotidiana, il veleno di cui è intrisa la mia lingua, la trasfigurazione di alcune terribili caratteristiche del mio popo­lo ») gli permette di creare nel Maestro e Margherita , ma anche in Cuore di cane , in opere teatrali come L’appartamen­to di Zoja e L’isola rossa , personaggi unici, di abbattere le barriere del tempo e dello spazio,di essere il si­gnore assoluto di un’altra dimen­sione, lì dove nessuna censura e nessun ukase aveva diritto di cittadinanza. Di tutto questo Bulgakov era consapevole, come attesta il suo stupen­do «carteggio» con Stalin, esemplare nella difesa del­la dignità di uno scritto­re: «La lotta contro la censura, qualunque es­sa sia e sotto qualun­que potere, è mio dovere, così co­me gli appelli alla libertà di stampa. Se un qualsiasi scrittore pensasse di dimo­strare che a lui non è necessaria, sareb­be co­me un pesce che dichiarasse pub­blicamente di poter fare a meno dell’ac­qua... Nella vasta arena della letteratura russa,in Urss io ero l’unico lupo.Mi han­no consigliato di tingermi il pelo. Consi­glio assurdo. Sia tinto sia tosato, un lupo non assomiglierà mai a un barbonci­no ».
Dietro alla passione popolare per Bul­gakov forse c’è anche l’omaggio postu­mo a chi negli anni terribili riuscì a non doversi vergognare di se stesso.