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 2013  novembre 11 Lunedì calendario

LA MERKEL FA A PEZZI LA RIPRESA A COLPI DI EURO


Merkel fino a quan­do? Per anni (alme­no dal 2008) la can­celliera tedesca ha dominato incontrastata la scena della politica economica europea ed è passata la linea calvini­sta tedesca de « lo spread è al­to, è colpa tua», dei compiti a casa e delle ricette «sangue, sudore e lacrime» per uscire dalla crisi.
Dopo 5 anni, però, i risulta­ti dimostrano che l’imposta­zione è stata del tutto sbaglia­ta, e finalmente si comincia a chiedere anche alla Germa­nia di fare la sua parte per il bene dell’economia del­l’area euro (vedremo come).
Allo stesso modo, un cam­bio di­strategia di politica eco­nomica nell’Europa a trazio­ne tedesca è, di fatto, la richiesta che emerge dalla decisione dello scorso giovedì della Bce di ridurre il costo del denaro. Nonché la necessaria risposta alle istanze populiste che si fanno largo ormai in tut­ti i Paesi dell’Unione, minan­do il ris­ultato delle elezioni eu­ropee della prossima primave­ra 2014.
Un esempio su tutti: la Fran­cia. Spesa pubblica in aumen­to, pressione fiscale alle stelle (più alta che in Italia, e ce ne vuole!), disoccupazione ai massimi, deficit ben oltre la so­glia del 3% (-4,1% nel 2013), ma rischio sovrano limitato (solo venerdì c’è stato un lieve, ma tardivo, declassamento da parte di Standard & Poor’s) e spread basso.
Perché? Perché il debito pub­blico è contenuto: 93,5%. Ma si può basare tutto su un unico elemento? La risposta raziona­le sarebbe no. Eppure in Euro­pa negli anni della crisi si è guardato solo a quello: al debi­to. Ci sarà un motivo se, al con­trario, mentre l’area euro chiu­derà il 2013 con un Pil medio negativo (-0,4%), gli Stati Uniti faranno registrare un +1,6% (pur con un debito del 104,7%) e il Giappone un +2,1% (pur con un debito del 243,4%)?
La Bce è intervenuta taglian­do il tasso unico di riferimento (leggi: il costo del denaro) di un quarto di punto, a quota 0,25%: il minimo storico. La de­cisione è stata accolta con ini­ziale entusiasmo dai mercati, ma l’effetto è durato solo un’ora e le Borse europee han­no chiuso tutte in negativo ( Mi­lano -2%), con la sola eccezio­ne di Francoforte.
La decisione della Bce è sta­ta certamente una buona noti­zia, ma non del tutto. Buona perché ha confermato la volon­tà da parte della Bce di sostene­re l’economia dell’Eurozona. Non del tutto una buona noti­zia perché ha lasciato intende­re che la Bce prevede ancora periodi di non crescita nel­l’area euro ( smentendo, di fat­to, i supporter dell’austerità, da Olli Rehn al ministro italia­no Saccomanni) e teme la de­flazione (riduzione dei prezzi causata dalla riduzione dei sa­lari e dei consumi). A questi li­velli di tassi di interesse, inol­tre, gli operatori sono disposti a detenere quantità illimitate di denaro rallentando la circo­lazione della moneta e renden­do, pertanto, neutro l’effetto della riduzione dei tassi di inte­resse sulla crescita. E la liquidi­tà immessa sul mercato con gli strumenti di politica moneta­ria non si trasforma in investi­menti da parte delle imprese né in consumi da parte delle fa­miglie.
Dalle colonne del New York Times , il premio Nobel Paul Krugman rincara la dose: la Germania non danneggia solo l’Eurozona, ma la crescita glo­bale. E il miglioramento della sua economia è avvenuto a sca­pito del resto del mondo, Stati Uniti inclusi, perché punta troppo sull’export e non sulla domanda interna, realizzan­do surplus della bilancia dei pagamenti superiori a qualsia­si altro Stato europeo, senza al­cun meccanismo di redistribu­zione grazie a un euro tedesco sottovalutato rispetto ai fonda­mentali dell’economia nazio­nale, che consente alla Germa­nia di «drogare» la propria competitività sul mercato esterno.
Un fatto (corredato di nume­ri), emblematico: tra le occhiu­te misure previste dai noti six pack e fiscal compact c’è una soglia massima consentita (fis­sata al 6%) alla variazione me­dia degli ultimi 5 anni del valo­re delle quote di mercato delle esportazioni degli Stati mem­bri. Nel 2012 la Germania ha re­gistrato, guarda caso, una va­riazione pari proprio a 5,9%, cioè quel decimale in meno che non fa scattare alcun auto­matismo redistributivo. Que­sto significa, come sostengo­no, tra gli altri, gli Stati Uniti, che, con tale surplus della bi­lancia dei pagamenti (per il 2013, è previsto un surplus del 7%) la Germania ha un vantag­gio competitivo sulla crescita.
L’euro tedesco, contro ogni volontà e sogno, ha distrutto l’Europa. È questa la malattia mortale che ci affligge. La solu­zione è una sola: i Paesi che re­gistrano un surplus nella bilan­cia dei pagamenti hanno il do­vere­economico e morale di au­mentare la loro domanda in­terna, trainando le economie degli altri. Si riequilibrano co­sì anche i conti pubblici e tor­nano ai livelli fisiologici i tassi di interesse sui debiti sovrani. Quindi i tassi di crescita dei Pa­esi sotto attacco speculativo. Risolvendo i problemi tanto di questi ultimi quanto dell’inte­ra Eurozona.
La legge di Stabilità si inseri­sce nella sequenza viziosa ap­pena descritta. L’impianto mi­nimalista adottato dimostra il timore reverenziale del nostro governo nei confronti della bu­rocraz­ia di Bruxelles e dell’Eu­ropa tedesca. Per invertire il se­gno va cambiata profonda­mente, in senso espansivo: con tagli di spesa, riduzione della pressione fiscale e au­mento della produttività del la­voro e della competitività del­le imprese.
Il populismo che il presiden­te del Consiglio vede crescere in Italia non è rancore nei con­fronti dell’Europa, bensì ran­core nei confronti dell’Europa tedesca, egoista e opportuni­sta.
Come avevamo previsto, le politiche adottate fino ad oggi nell’area euro non solo hanno danneggiato la crescita euro­pea, ma hanno posto l’intero continente in conflitto con Usa e Cina, impedendo un co­ordinamento internazionale pro-crescita.
Non è, allora, populista chi si oppone all’egemonia e al­l’egoismo della Germania e de­nuncia gli effetti negativi della politica economica di un’Euro­pa passiva ai diktat della can­celliera tedesca, ma coloro che portano l’Europa a sbatte­re contro un muro, con politi­che errate e nazionaliste. Fino a quando si confonde l’attac­co alle scelte europee con l’at­tacco all’Europa in quanto ta­le, si alimenta l’anti-europei­smo.
Insomma, abbiamo tutti i motivi per affermare che Ange­la Merkel fa male, all’Europa e all’Italia.Bisogna dirle di smet­tere. Chi la chiama?