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 2013  novembre 11 Lunedì calendario

CICCHITTO, PESSIMISTA COSMICO CHE BUTTA TUTTO IN POLITICA


Secondo chi lo conosce me­glio, Fabrizio Cicchitto non è per nulla ostile al Cav come parrebbe dal suo atteg­giamento. Anzi. Essendo però iracondo, è anche in lite con le buone maniere e appare stizzo­so. D’animo, tuttavia, è buono. Cicchitto passa per portaban­diera dei «governativi» - Alfano, Lupi & co. - con i quali in realtà nulla ha da spartire né per storia politica, democristiani loro, so­cialista lui, né per età: i suoi 73 an­ni, contro i 40-50 dei ministri. An­che per questo ha stupito, dopo lustri di berlusconismo senza macchia, la sua recente smania di staccarsi dal Cav. Ma più che amore per gli alfaniani lo ispira la diffidenza verso i cosiddetti fal­chi del Pdl. Trova cretino che isti­ghino il Berl­usca a soluzioni mu­scolari per uscire dalle difficoltà, tipo affossare il governo o spiu­mare le toghe, per quanto inde­gne siano.
Il Berlusca rifiuta di credere che in politica esista la malvagi­tà e che vogliano davvero azze­rarlo, obiettando che lui non lo farebbe. Lui magari no, gli altri sì: basta guardare la faccia di Lui­gi Zanda. È su questa bambolag­gine che contano i pasdaran del Pdl per convincerlo che uscirà dall’accerchiamento mostran­do gli aculei. Per Cicchitto è il contrario. La soluzione è politi­ca: più utile stare nel governo che fuori, più furbo carezzare il Quirinale che stuzzicarlo. Di qui, la fissa di creare un secondo Pdl più aperto e meno arrocca­to. Questo, in sintesi, quel che gli frulla in capo.
Il Cav è un ottimista. Cicchitto un catastrofista al cubo. Questo li differenzia aldilà dell’affetto. Se Fabrizio addenta una mela, dà per certo che ci sarà il verme. È quest’ansia a renderlo penso­so, distratto e a tratti iroso. Poi­ché ha spesso le scarpe slacciate - e se non fosse per la moglie Ma­nuela andrebbe in giro con un calzino giallo e l’altro verde-una volta che stava per scendere le scale in quel­le condizioni, un amico lo ammonì: «At­tento che in­ciampi ». «Ma che c...zo con i guai che abbia­mo, pensi a queste scioc­chezze?! », replicò sgarbatamen­te assorto com’era nella sua pa­turnia quotidiana, per lui più vi­tale che rompersi l’osso del col­lo. Fabrizio fu il primo ad accor­gersi che le cose con Gianfranco Fini non andavano per il verso giusto. Ammonì il Cav, allora premier, a non tirare la corda perché al governo e al Pdl conve­nivano l’armonia. Fece lo stesso con Gianfranco e altrettanto inu­tilmente. Quando finì a torte in faccia, Cicchitto disse oracolare: «Poi dicono che sono pessimi­sta. Mille volte di più devo esser­lo ».
La vita del Nostro non è stata fa­cile. Di origini molisane, ma na­to a Roma, Fabrizio frequentò il classico al Liceo Dante Alighieri, nel quartiere Prati, e si laureò in Legge alla Sapienza. Si appassio­nò di Economia e, avendo già la tessera Psi, entrò nell’ufficio stu­di della Cgil. Era un massimali­sta seguace di Riccardo Lombar­di, il duro pugliese che aveva pre­teso la statalizzazione dell’elet­tricità, uomo onesto e paraco­munista. Cicchitto fu, con Clau­dio Signorile, il giovane più in vi­sta della congrega. Arrogante, vestito col gilè, sdottorava nel partito e sui giornali. Era la pupil­la degli occhi di Lombardi e a 36 anni, nel 1976, fu eletto deputa­to. Confermato nel ’79, incappò nello scandalo P2.
Nel Psi, c’era una lotta per ban­de. Sentendosi indifeso, nel di­cembre 1980 Fabrizio cercò «protezione» nella Loggia di Li­cio Gelli. Con una iella stratosfe­rica, che ha poi nutrito il suo pes­simismo cosmico, gli elenchi se­gret­i con il suo nome furono sco­perti dopo meno di tre mesi. Al­tri, nelle sue stesse condizioni, negarono l’appartenenza o tro­varono scuse. Lui fu convocato da Lombardi che gli chiese seve­ro: «Ti sei affiliato?». «Sì», replicò l’altro afflitto. Il vecchio gli rifilò un notevole ceffone, intimando: «Ammetti tutto». Il meschino ob­bedì, condannandosi all’ostraci­smo ipocrita del Palazzo. Tutte le cariche che aveva nel Psi furo­no ­congelate e per anni fu dimen­ticato.
La sola cosa che non si fece mancare durante il purgatorio furono le belle donne. Strinse una relazione con l’affascinante femminista, Marta Ajò, da cui eb­be una figlia. Sposò poi l’attuale moglie che sembra una model­la. Tornò in politica nel 1992, ri­pescato da Craxi che lo fece eleg­gere senatore. Fabrizio, che in gioventù lo aveva combattuto, gliene fu grato rimanendogli fe­dele nella disgrazia fino alla mor­te. Solo dopo, quando ogni spe­me di rifare il Psi, era tramonta­ta, si avvicinò al Cav e al centro­destra. Il Berlusca lo rispedì alla Camera, dov’è da quattro legisla­ture col Pdl, affidandogli i massi­mi incarichi. È stato vice coordi­natore con Sandro Bondi che gli dedicò il verso: «La mia fede, è la tenerezza dei tuoi sguardi», tra­sfigurando poeticamente la sua presbiopia; capogruppo dei de­putati; ora capeggia la commis­sione Esteri. Mai avuto invece ruoli governativi, perché li disde­gna preferendo gli arzigogoli del­la politica pura.
Fabrizio è uno stakanovista sulle quattordici ore, metà delle quali passa urlando con i collabora­tori ma senza creare rancori essendo arcinote le sue fisime.
L’unico modo che ha per distendersi è andare al tirassegno a sparare con la pistola. Dopo cinquece­nto colpi e dieci sagome crivellate, è in pace con se stesso. È for­se connessa a questa abitudine una certa durezza di orecchio. Di certo, il suo udito preoccupò parecchio il Cav quando lo spedì in missione al Quirinale ai tempi dello spread impazzito nel set­tembre 2011. «Purché si metta l’apparecchio acustico», sospi­rava il Berlusca che sapeva quan­to Cicchitto fosse restio a mo­strarsi con l’aggeggio ma consa­pevole di quanto fosse necessa­rio che cogliesse ogni sussurro di Napolitano. Mandò messag­geri per raccomandarsi che pe­rò Fabrizio spedì all’inferno, la­sciando insoluta la questione. Tanto che, per ore, mentre si svolgeva il colloquio sul Colle, ri­suonò in ogni stanza di Via del­l’Umiltà (vecchia sede del Pdl) l’angosciata domanda: «Ce l’avrà o no l’amplifon?». La man­sione, in ogni caso, fu svolta felicemente.
Cicchitto è un romanista per­so. Quando la «maggica» gioca in casa è sempre allo stadio. Se ha di fronte un laziale lo mette in croce e l’ex capufficio stampa del Pdl, oggi deputato, Luca D’Alessandro, è laziale. Una vol­ta che D’Alessandro prese una settimanella di vacanza, mentre lui lo voleva accanto sé, profittò dell’assenza per fargli dipingere in giallorosso le pareti dell’uffi­cio, a mo’ di punizione. Quando l’altro, di ritorno, vide lo scem­pio del locale, il suo cuore laziale gli comandò di non entrare, a co­sto di licenziarsi. Così Cicchitto, ancora a spese sue, richiamò i pittori e, abbracciando Luca, gli ripristinò la stanza.
Un originale. Ma meglio mat­to che senz’anima.