Sergio Romano, Corriere della Sera 11/11/2013, 11 novembre 2013
PERCHÉ CONVIENE ALL’ITALIA NON AVERE DEBITI CON L’UE
Non credo di essere l’unico ad esprimere il desiderio di avere maggiori spiegazioni relative alla sua affermazione che è un bene che l’Italia sia un pagatore netto verso l’Europa (Corriere, 30 ottobre).
Giuseppe Bruni
Caro Bruni,
C redo che le ragioni della mia affermazione le sembreranno più chiare se confronterà la crisi spagnola con quella italiana. In Spagna, i danni provocati dalla crisi sono stati enormi. Come ricorda Alberto Quadrio Curzio (Il Sole 24 Ore, 1° novembre), la disoccupazione, nel periodo fra il 2008 e il 2013, è cresciuta di circa 15 punti (dall’11,3% al 27%) e il debito pubblico è aumentato del 40% (dal 40,2% al 91,3%). Minacciato dalla prospettiva di un imminente collasso, il Paese, dopo qualche resistenza iniziale, si è piegato alla necessità di un prestito per la ristrutturazione del suo sistema bancario. Come tutti i prestiti concessi dal Fondo salva Stati (European Stability Mechanism), anche questo è stato accompagnato da condizioni che hanno fortemente limitato la sovranità dello Stato. Non credo che i problemi strutturali della Spagna siano stati risolti, ma il minuscolo ritorno della crescita nell’ultimo trimestre (0,1%) è stato salutato dai governi e dai mercati come una salutare inversione di tendenza.
Non so se questo ottimismo sia giustificato, ma le percezioni, in economia, non sono meno importanti dei fatti e la Spagna sembra navigare in acque più tranquille. Qualcuno sostiene addirittura che anche l’Italia avrebbe dovuto ricorrere al Fondo salva Stati. Se la Spagna ha tratto vantaggio dall’aiuto finanziario dell’Ue, perché l’Italia non avrebbe dovuto fare altrettanto? Questa analogia, tuttavia, non tiene conto di un altro fattore. La Spagna ha un prodotto interno lordo inferiore a quello italiano, ma ha una costituzione che conferisce al Primo ministro i poteri necessari al governo del Paese e un sistema elettorale che garantisce la formazione di maggioranze omogenee. I mercati conoscono i suoi problemi, sanno che la disoccupazione giovanile è alle stelle (dal 24,6% del 2008 al 53,2% del 2013) e non possono ignorare il rischio di una secessione catalana. Ma sanno che la Spagna, fra un anno, avrà verosimilmente lo stesso esecutivo da cui è governata oggi; mentre non sono in grado di fare la benché minima previsione sulla durata del governo italiano.
Fra Italia e Spagna esiste quindi una fondamentale differenza. Se la Spagna si appresta a realizzare alcune riforme, esistono buone ragioni per pensare che il calendario venga rispettato; se l’Italia annuncia gli stessi propositi, il suo futuro, agli occhi del mondo, appare avvolto nella nebbia. Questa incertezza è inevitabilmente destinata a incidere sulla credibilità finanziaria del Paese e sulle condizioni a cui verrebbe sottoposto se fosse costretto a chiedere un prestito. Farne a meno, quindi, non è soltanto questione d’orgoglio o vanteria. È l’unico argomento di cui abbiamo potuto disporre, sinora, per dimostrare al mondo che siamo decisi a curare i nostri mali. Peccato che una larga parte della classe politica italiana non l’abbia ancora capito.