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 2013  novembre 11 Lunedì calendario

ARMSTRONG, IL FASCINO DEL MALE


La caduta è solo il primo atto. Lance Armstrong è stato radiato a vita ma la sua carriera non può finire perché l’immortalità non è un’esclusiva dei giusti. Basta guardare il trailer del documentario che esce tra tre giorni: «The Armstrong Lie», l’anatomia di una bugia.

Primi piani di un uomo che per anni ha ripetuto di essere pulito e ha convinto quasi tutti: «La gente non è stupida». È una frase sua, l’ha ripetuta in ogni intervista, in ogni conferenza come se fosse un alibi, come se il fatto di piacere bastasse ad assolverlo, e il documentario, il primo dei progetti che orbitano intorno alla sua vita, parte proprio da questa ossessione. Da questa illusione. Dal fascino del male.
Il ciclista è stato smascherato, ha perso ogni titolo vinto tra il 1999 e il 2005, compresi i sette Tour che lo avevano trasformato in eroe, è stato abbandonato dagli sponsor, ha affossato la fondazione anti cancro che aveva creato eppure sa ancora ammaliare o comunque intriga. È il soggetto più desiderato di Hollywood, il nome su cui litigano i produttori, è la storia che seduce registi di ogni tipo, da quelli abituati ai grandi incassi ai cineasti di nicchia. Cinque titoli in uscita e un interesse che supera persino la fama dei giorni migliori. I 28 milioni di telespettatori che lo hanno sentito ammettere l’uso del doping davanti a una conciliante Oprah Winfrey sono la prova che l’audience è potenzialmente illimitata e non è solo questione di soldi, di vendite che sembrano facili. C’è molto altro dietro alla gara per i diritti di qualsiasi biografia, testimonianza o memoria pubblicata. C’è il bisogno di rivoltare la grande menzogna, di capire come è stata costruita e anche il meno nobile istinto di guardare il cattivo dritto in faccia e magari scoprire di non riuscire a trovarlo del tutto spregevole.
Il documentario diretto dal premio Oscar Alex Gibney doveva esaltare il ritorno alle corse del texano. L’idea è datata 2009 e aveva l’appoggio del ciclista e di tutto il suo entourage. Si chiamava «The Road Back», solo che la strada è un po’ cambiata. Già durante le riprese il tema truffa dava strane ombre all’epica e in sala di montaggio le risposte sospese di colleghi ed esperti, gli sguardi di traverso, le domande dei giornalisti del «Times» hanno definitivamente modificato il concetto. Gibney non pensava a un’inchiesta: «Capivo solo che non si poteva semplicemente esaltare l’impresa. Ho aspettato per aggiungere e correggere, senza ben sapere cosa e l’attualità è entrata nel mio documentario». Ci sono voluti due anni per ribaltare il girato e quello che è uscito è quasi il negativo di una carriera e il centro della curiosità.
Da due settimane Ben Foster, in Italia noto più che altro per la serie «Six Feet Under», si infila il caschetto e pedala davanti all’occhio attento del regista Stephen Frears. Entrambi si muovono veloci, uno nel tentativo di replicare la potenza di Armstrong, l’altro per battere la concorrenza. Non c’è ancora un titolo, ma le scadenze sono chiare: «Sappiamo bene che di non essere soli, ma noi abbiamo fondi inglesi e meno referenti, possiamo muoverci più veloci dei colossi Usa». I colossi rispondono al nome di Paramount e Warner Bros, finanziatori di altre pellicole che hanno sempre lo stesso protagonista: Lance.
Ognuno cerca un lato inedito, una frase rivelatrice, un approccio che faccia la differenza. Un film è basato sull’esperienza del reporter David Walsh, il primo a dubitare dei successi in serie, un altro sulla ricostruzione della giornalista del «New York Times», Juliet Macur, che ha firmato «Cycles of Lies», il terzo sui ricordi di Tyler Hamilton un tempo amico di Armstrong diventato poi uno degli accusatori. Solo i Kennedy e il Titanic hanno catturato tante attenzioni e per quanto il pubblico dimostri sempre di gradire ogni assaggio di retroscena c’è qualche scettico. John Durie, esperto di marketing cinematografico, uno dei guru pagati per capire quale soggetto riempirà le sale, teme che ci sia troppo in circolazione e che la smania di arrivare primi farà uscire i film in sequenza con un possibile effetto noia. I registi lo ignorano, per Frears il ciclista maledetto è «materiale da tragedia greca», per Gibney è «puro dramma shakesperiano» e lo stesso Durie confessa che le sue previsioni rispettano parametri classici «e Armstrong con la sua storia quasi biblica forse può superare i confini».
Per qualcuno è una fissazione, l’ultimo soggetto in cantiere sfrutta l’esperienza di Paul Kimmage, ex ciclista pure lui, ex dopato pure lui e tra i detrattori della prima ora. È la voce narrante di «The Rough Rider», documentario che esordisce così: «Quest’uomo mi ha rovinato l’esistenza». L’uomo è il diabolico Lance e l’esistenza è quella di Kimmage, isolato dall’ambiente dopo un paio di interventi scomodi. Per lui il crollo di Armstrong è un riscatto personale e per i promoter irlandesi del lavoro è un punto di vista particolare da buttare in pasto al pubblico avido di dettagli sulla truffa più elaborata nella storia dello sport. Dopo il libro firmato dai giornalisti del Wall Street Journal ce n’è un altro in uscita e si porta dietro nuovi brandelli di segreti. Gocce di morbosità che si aggiungono al pozzo senza fondo. Armstrong piaceva quando era un campione e ora che è il male assoluto non si riesce più a staccargli gli occhi di dosso.