Bruno Ventavoli, La Stampa 11/11/2013, 11 novembre 2013
IL GIGANTE SERIAL KILLER DELL’AMERICA ON THE ROAD
Il 22 novembre 1963 non fu solo Dallas. Mentre il mondo assisteva sgomento al tiro al bersaglio su Jfk, migliaia di chilometri lontano dal Texas esplodevano altri colpi di fucile, chissà se più insensati. In un ranch isolato della California un ragazzo geniale e mostruoso nel corpo aveva ammazzato i due nonni e stava per debuttare in una delle più allucinanti carriere da serial killer nell’America scossa dalla guerra in Vietnam. Ed Kemper, questo il suo nome, rapiva autostoppiste per ucciderle e commettere aberrazioni d’ogni genere sui cadaveri (dal mangiarsi membra miste a cipolle, pasta, formaggio, a praticare sesso necrofilo). Oggi è ancora in carcere, nonostante la perfetta condotta, le lezioni di ingegneria che impartisce agli altri detenuti e la trascrizione in Braille di libri per i ciechi. Lo scrittore francese Marc Dugain ne immagina la vita, e soprattutto il maelstrom di pace e orrore che ribolliva nella sua mente, in Viale dei giganti (Isbn), romanzo avvincente, lucido come la perizia di uno psicologo e delicato come un apologo, che ricorda L’avversario, di Emmanuel Carrère, altro magnifico ritratto di furia omicida.
Dall’adolescenza tormentata alla bulimia di morte, Dugain ricostruisce l’escalation criminale, anzi l’insinuarsi della follia nell’intelligenza, nella razionalità, nella normalità di un Paese che si credeva grande dopo aver vinto la guerra mondiale.
Anche Ed Kemper (che nel romanzo si chiama Al Kenner) era grande. Anzi, immenso. Oltre due metri di goffa altezza, centoventi-centotrenta chili, 49 di piedi malfermi. I compagni di classe lo guardavano con la riverenza che si tributa ai fenomeni da baraccone. E lui, terrorizzato dalla violenza, scansava le risse dei bulli scolastici, i giudizi, le vite tristi dei californiani. La crescita troppo veloce l’aveva avvicinato al cielo e condannato alla solitudine, perché in quella prigione sgraziata di carne e ossa abitava una mente raffinatissima (un quoziente intellettuale superiore a quello di Einstein), attratta dalla bellezza femminile ma incapace di avvicinarla.
Un giorno, senza sapere perché, semplicemente «perché avevo bisogno di respirare», imbracciò il Winchester e sparò alla nonna china sul cavalletto a dipingere illustrazioni per l’infanzia. Poi freddò il nonno, e girò su una moto alla Easy Rider i paesaggi immensi dell’America creati apposta per inghiottire sogni e deliri umani. Dopo qualche giorno si costituì a uno sceriffo ancora turbato per l’omicidio Kennedy che manco voleva ascoltarlo.
Ed fu dichiarato schizofrenico-psicotico. Finì in manicomio. Ingaggiò un duello disperato contro il male che lo possedeva, cercando di lenire un passato segnato dai soprusi della arida madre, soffocante con il figlio per compensare una patologica incapacità di amare il sesso maschile; e dall’adorazione per il padre, un uomo pacioso con la faccia da John Wayne, anch’egli altissimo. Si confessò a uno psichiatra, giocando a scacchi e scacciando i pensieri cattivi con la lettura di Delitto e castigo, Dostoevskji. Dopo cinque anni riuscì a farsi dichiarare innocuo dagli strizzacervelli. E tornò apparentemente guarito nella società, anche perché i manicomi si colmavano di reduci dal Vietnam.
Si ritrovò nella California del governatore Reagan e degli hippie cenciosi che praticavano l’amore libero; l’Lsd che allargava la psiche; la musica dei Grateful Dead e di Janis Joplin; pacifisti, Hell’s Angels, serial killer che trucidavano fanciulle per acquistare fama sui giornali; profeti svariati, da Marcuse al satanista Manson. Insomma un Paese confuso, colorato, forse schizofrenico, verso il quale Ed provava ripugnanza. E mentre l’autostop diventava un simbolo di libertà, di avventura poetica e letteraria in Kerouac o Ginsberg, il gigante killer caricava autostoppiste. Ne massacrò sei. Poi, per chiudere il conto con i propri fantasmi, andò dalla madre un venerdì sera, nell’aprile ’73, e la uccise a martellate, infierendo sul suo cadavere con tutto il delirante odio che provava nei confronti di chi l’aveva scaricato, così mostruoso, su questa Terra, «come una cassa che cade da un camion». La violentò morta, la decapitò, usando la testa come bersaglio per freccette, poi le tagliò le corde vocali e le gettò nel tritacarne per dimenticarsi i gridi subiti durante l’infanzia. Non pago, invitò a cena la migliore amica della genitrice e la strangolò. Dopodiché si costituì alla polizia (nel romanzo si consegna al padre della fanciulla con la quale era semifidanzato) perché, conscio della sua superiore intelligenza, era sicuro che non l’avrebbero preso mai.
Questa la storia vera di Ed Kemper. Il romanzo avrebbe potuto essere una diabolica fantasia splatter con le macabre prodezze del killer. Nelle mani di Dugain diventa una pacata fiaba esistenziale (senza voyeurismi, senza effetti horror, senza il racconto di un solo omicidio; l’unico dialogo con due future vittime finisce così, in nulla: «Cosa vuole farci? Violentarci? Ucciderci»; «Entrambe le cose, ma non in questo ordine. Ma no… sto scherzando») sul sottile confine che separa la normalità dalla follia e l’affresco di un mondo, l’America, osservato attraverso gli occhi di un mostro terribilmente umano, troppo umano. Delitti senza castigo. Viaggio doloroso nei penetrali dell’animo dove le pulsioni inconfessabili si mescolano ai rovelli di dare un significato a questo nostro destino, scaraventati fuori dall’utero materno in corpi e ruoli a casaccio, angosciati dalla paura del nulla che seguirà la breve e claudicante passeggiata sulla Terra senza bussole né consigli che non siano gli strilli pedagogici di una madre o le urla di una patria che chiama alla guerra, di un Dio inconoscibile che manda tavole dei comandamenti, di una società civile che fissa i paletti del bene e del male sui sensi di colpa.
Non a caso l’esergo di Viale dei giganti è preso da quell’allegrone di Cioran, magnifico giocoliere del pessimismo: «Essere, vuol dire essere incastrati».