Alessandro Leipold, Il Sole 24 Ore 10/11/2013, 10 novembre 2013
LA LEZIONE DI KEYNES SUGLI SQUILIBRI MONDIALI
Ci risiamo: ancora una volta il dibattito economico internazionale si concentra su una questione irrisolta dalla conferenza di Bretton Woods, ormai quasi 80 anni fa. La questione è di come assicurare un aggiustamento simmetrico degli squilibri delle bilance dei pagamenti globali - una correzione cioè compiuta non solo dai paesi in disavanzo (sotto la pressione dei mercati e svenati dalla perdita di riserve) ma anche in misura corrispondente da quelli in surplus. L’ultima puntata di questo eterno dibattito si sta concentrando sulla Germania, innescata dalle accuse d’impulso deflazionistico avanzate dal Tesoro Usa, riprese dal Fmi, e prontamente respinte da Berlino. La Commissione Ue ha nel contempo pubblicato cifre che dovrebbero porre la Germania sotto la nuova procedura di «squilibrio eccessivo». L’ultimo dato sull’avanzo commerciale tedesco registrato a settembre - un record assoluto - ha alimentato ulteriormente le polemiche.
Chi spera che tanta attenzione serva a smuovere la Germania verso una politica meno restrittiva si illude. E questo non per una particolare testardaggine tedesca, ma semplicemente perché non vi è pressione internazionale che sia mai riuscita a imporre l’aggiustamento ai Paesi creditori. Si pensi, in tempi recenti, al Giappone o alla Cina, oppure - ai tempi della crisi petrolifera - ai produttori Opec. La correzione, quando avviene, è spinta da un apprezzamento del cambio (quando questo non è manipolato) o da pressioni interne quando diviene evidente che una correzione di rotta è, alla fin fine, nell’interesse del Paese stesso.
Il problema degli squilibri globali attanagliò John Maynard Keynes nel disegnare il nuovo sistema monetario internazionale dopo la seconda guerra mondiale. Lo definì «il problema internazionale secolare», riconoscendone l’intrattabilità. Il timore era che il sistema di scambi internazionali degenerasse in pericoloso gioco mercantilista diretto a esportare la disoccupazione: esattamente l’accusa rivolta oggi a Berlino.
Senza meccanismi d’aggiustamento internazionali, e finché i Paesi in avanzo si rifiutano di usare il loro maggiore potere d’acquisto, è fatale che la correzione avvenga tramite una contrazione nei Paesi debitori, impartendo così un impatto deflattivo all’economia mondiale.
La soluzione proposta da Keynes prevedeva penali non soltanto per i Paesi in disavanzo ma, in modo simmetrico, anche per quelli in surplus - comprese rivalutazioni obbligatorie in caso di avanzi oltre un certo limite. Ma Keynes stesso era ben consapevole delle resistenze politiche alla sua proposta, definendola «uno schema ideale… complicato e originale, e forse utopistico». E infatti così è stato: per anni il Fondo monetario internazionale non è riuscito a far sì che l’esercizio della sua «surveillance» fosse veramente equilibrata ed equa, nonostante molteplici proposte al riguardo.
Tanto meno ci riuscirà la sorveglianza dell’Unione europea, nata già zoppa. Infatti, mentre per far scattare una procedura di «squilibrio eccessivo» basta un deficit di parte corrente pari al 4% del Pil, la soglia analoga per un Paese in surplus è del 6% del Pil. Un’asimmetria congenita che indebolisce in partenza il meccanismo. Non ci si attenda quindi mutamenti di fondo da questa procedura.
Allora, che fare? Per cominciare, bene ha fatto Mario Draghi a indurre un consiglio Bce diviso ad approvare a maggioranza la riduzione dei tassi direttivi giovedì scorso. Anche se l’effetto sul cambio euro, inizialmente nella direzione desiderata, rischia di non essere duraturo (come non lo fu in occasione dell’ultimo taglio dei tassi in maggio), l’intento anti-deflattivo è certamente appropriato. Restano nell’arsenale Bce la possibilità di una nuova iniezione di liquidità a lungo termine (Ltro) e di un tasso sui depositi bancari negativo - entrambe misure però non senza rischi. C’è soprattutto da sperare che la sorveglianza europea sui bilanci 2014, attualmente in svolgimento, sia veramente - come più volte proclamato - «growth-friendly», con minor enfasi su scostamenti marginali dagli obiettivi nominali preposti.
Infine, aiuterebbe anche l’eventuale inizio del tapering da parte della Federal Reserve, rafforzando il dollaro statunitense. Però, per gli Stati Uniti quanto per la Germania, cambiamenti importanti di politica economica avverranno soltanto quando dettati da condizioni domestiche. Al riguardo, l’ultimo dato positivo sull’occupazione statunitense promette bene.
Per correggere il gap competitivo italiano, stimato dal Fondo monetario internazionale a circa il 10% in termini di cambio reale effettivo, tutto ciò aiuta ma non basta. Non si speri cioè che le pressioni attuali sulla Germania sollevino il compito dell’Italia, che resta quello di sempre: migliorare la produttività e ridurre il costo del lavoro tramite un cuneo fiscale significativamente minore, un ruolo maggiore della contrattazione aziendale, la rimozione della ragnatela di protezioni corporative, una giustizia più rapida ed efficiente, e privatizzazioni
senza tabù.
Intanto si discuta pure di «aggiustamenti simmetrici»: ogni dibattito è utile ma non si speri di riuscire oggi dove ha fallito John Maynard Keynes ieri, e ci si concentri invece sui veri fattori sottostanti la minore competitività italiana.