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 2013  novembre 10 Domenica calendario

MARINA E BARBARA NON SONO IL DOTTOR FIZ


Anche nella sua città, Casale Monferrato, dove sono nato e cresciuto, quasi nessuno si ricorda del dottor Riccardo Fiz. Eppure nei primi anni del Novecento era stato un medico molto stimato e generoso, tanto da essere chiamato il Dottore dei poveri. Curava gli indigenti senza chiedere nulla in cambio. Accorreva sempre a ogni chiamata. Una volta alla settimana, nei locali della Croce Verde che aveva contribuito a fondare, teneva un ambulatorio gratuito per chi non poteva pagare il medico e le medicine. Provvedeva a tutto: curava,consolava e aiutava con piccoli prestiti, di cui non chiedeva mai la restituzione.
Il dottor Fiz era ebreo, come parecchi cittadini di Casale, ma nessuno ci badava o lo riteneva una colpa. Era uno scapolo piccoletto, robusto, il volto dominato da una naso importate e da due baffoni neri. Nella prima guerra mondiale, pur essendo al di là della quarantina, aveva fatto il proprio dovere come capitano della sanità. Quel conflitto gli aveva lasciato tre eredità. Una pietà ancora più grande per le sventure degli esseri umani. Una mantella di panno grigioverde che nei mesi freddi portava come se fosse una divisa. E una bicicletta dell’esercito che gli serviva per il giro quotidiano dei pazienti.
I guai di Fiz iniziarono con le leggi razziali decise nel 1938 dal regime fascista. E diventarono terribili nel 1944 quando cominciarono le catture degli ebrei. Fiz aveva 75 anni e un fratello, Riccardo, di 71 anni, geometra. Si illusero di salvarsi passando da un rifugio all’altro, sulle colline del Monferrato. Poi decisero di nascondersi nell’ospedale cittadino, il Santo Spirito. Il dottor Fiz contava sull’aiuto dei colleghi medici. Ma lui e il fratello s’im batterono in una suora malvagia. Quando si trovò di fronte i poliziotti che cercavano i Fiz, la monaca non ebbe esitazioni e indicò subito la stanza dove stavano. Il dottor Fiz venne ammanettato, insieme al fratello, e condotto nel piccolo carcere di via Leardi.
Qui incontrò la religiosa che lo aiutava nell’assistenza ai detenuti. Con un sorriso malinconico, Fiz le mostrò i polsi serrati negli schiavettoni di ferro e domandò: «Suor Vincenza, che cosa ha fatto di male per essere trattato così?». La suora scoppiò in lacrime e rispose: «Dottor Fiz, lei ha fatto soltanto del bene. E il Signore se ne ricorderà».
Ma il Padreterno, purtroppo, non si rammentò né di Fiz né degli altri ebrei catturati nella mia città. Fino all’inizio del 1944 nessuno era stato arrestato e deportato. Maa partire dal febbraio ci furono due razzie che presero di mira la piccola comunità ebraica. Per razzie intendo una serie di arresti successivi. Compiuti da poliziotti italiani in servizio presso il commissariato locale. Armati sino ai denti, giravano su una Balilla nera. L’ebreo rapito veniva scaraventato nell’auto e poi rinchiuso in prigione. Il 12 febbraio la Balilla si portò via un commerciante di 67 anni, Federico Simone Levi. Il giorno 15 toccò a un impiegato in pensione: Armando Levi, anziano e molto malandato. I poliziotti avevano degli elenchi precisi e andarono a prenderlo a casa, in piazza San Francesco. Dopo di lui venne arrestata Erminia Morello, 59 anni, vedova di un antiquario. La signora commerciava in mobili e conosceva qualche pezzo grosso del fascismo cittadino. Sperava di salvarsi e invece finì anche lei in via Leardi.
Il 16 febbraio ci furono cinque catture. Per prima venne presa una coppia: Isaia Carmi, 59 anni, ebanista provetto e bravo restauratore, e la moglie Matilda Foà, 55 anni, dalla salute malferma. Il terzo arresto fu quello di Giulia Segre, 57 anni, nubile e casalinga. Poi fu la volta di una docente di pedagogia in pensione: Augusta Jarach, 67 anni, che aveva insegnato a Milano nella scuola ebraica «Da Fano». Il quinto sequestrato in quella giornata era un signore molto noto in città perché era stato il fondatore della squadra di calcio cittadina, il Casale Fbc. E nel 1914 l’aveva condotta alla conquista dello scudetto in serie A, battendo per due volte la Lazio. Era Raffaele Jaffe, 66 anni, a lungo insegnante all’Istituto tecnico e poi preside delle magistrali. Dopo anni vissuti da scapolo, aveva sposato una ragazza cattolica e si era fatto battezzare ben prima delle leggi razziali. Ma l’equipaggio della Balilla non si curò del certificato di battesimo e si portò via anche Jaffe. Il 19 febbraio, ultimo giorno della prima razzia, vennero prese madre e figlia: Ines Segre, 51 anni, ed Emma Sacerdoti, 21 anni, una studentessa espulsa dalla scuola pubblica per le leggi antisemite. Sempre quel sabato cadde nelle mani dei poliziotti Cesare Davide Segre, un sarto di 57 anni. Era sordomuto, non sentiva e non parlava. Qualche parente l’aveva fatto ricoverare nel reparto incurabili del Santo Spirito. Ma i fascisti e i tedeschi lo consideravano un nemico pericoloso. Lo tirarono giù dal letto e lo portarono in via Leardi.
La seconda razzia venne compiuta giovedì 13 aprile 1944, la settimana dopo Pasqua. Per prima toccò a Eugenia Treves, 80 anni, madre di Erminia Morello, la commerciante di mobili arrestata in febbraio. Poteva nascondersi in un paesino delle Langhe, ma rifiutò di muoversi dall’alloggio di via Balbo. Disse: «Se vengono a prendere anche me, sarò portata dove c’è l’Erminia e la rivedrò».
Poi fu la volta di due sorelle: Vittorina e Faustina Artom, di 75 e 73 anni. Si erano rifugiate nel convento delle domenicane di Santa Caterina da Siena. Ma la madre superiora era codarda o catcattiva. Temendo di passare un guaio per aver dato asilo a due ebree, andò al commissariato e le denunciò. Nello stesso giorno furono arrestati Moisè Sannino, 80 anni, e Giuseppe Raccah che aveva compiuto da poco 70 anni. A quel punto la Balilla nera si diresse di nuovo verso l’ospedale Santo Spirito. Qui i poliziotti catturarono i fratelli Fiz. E si portarono via il più anziano tra gli ebrei rastrellati in città: Sanson Segre, di 88 anni. Aveva commerciato in tessuti per tutta la vita, poi si era ritirato. Sperando di godersi un riposo tranquillo nella casa di via del Carmine, in compagnia della moglie, Maria Ricaldone. Negli elenchi stesi dalle autorità fasciste veniva indicato come proprietario e benestante.
Invecchiando, il signor Segre si era ammalato. Un terribile diabete, non curato in tempo, gli aveva mandato in cancrena un piede. I chirurghi del Santo Spirito erano stati costretti ad amputarglielo. Il vecchio Sanson stava ancora ricoverato in corsia, sotto osservazione dei sanitari. Ma i poliziotti della Balilla nera non ebbero nessun riguardo per le sue condizioni. Lo strapparono dal letto e lo trascinarono nel carcere di via Leardi. Tutti gli ebrei arrestati nella mia città furono tradotti a Fossoli, vicino a Modena. Nel campo di transito per i prigionieri destinati alla deportazione in Germania. Di lì partirono per Auschwitz. L’ultimo mandato in quell’inferno fu il professor Jaffe. Il suo certificato di battesimo aveva costretto i burocrati dello sterminio a regalargli qualche settimana di vita in più.
Le persone ricordate in questo Bestiario, una volta arrivate ad Auschwitz, sopravvissero qualche giorno o qualche ora. Poi vennero uccise con il gas e bruciate nei forni crematori. Tutte, vecchi, anziani, giovani. In città la memoria del loro sacrificio oggi è testimoniata dalla presenza della Sinagoga, in vicolo Salomone Olper, nel centro del vecchio ghetto. Adesso, sessantanove anni dopo, leggo che Silvio Berlusconi sostiene che i suoi figli si sentono come gli ebrei sotto Hitler. Potrei scrivere parole pesanti sull’ultima follia del Cavaliere. Mi limito a dire che Marina, Barbara e i loro fratelli non sono di certo il dottor Riccardo Fiz e i tanti ebrei uccisi dai tedeschi e dai fascisti nell’anno nero 1944.