Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  novembre 10 Domenica calendario

LE DUE FORZE MOTRICI CHE SVALUTANO IL LAVORO


Ci stiamo accorgendo che il lavoro conta sempre meno. La quota di reddito che si ritaglia è in calo da almeno vent’anni , a vantaggio di profitti e rendite: nel mondo, era del 66% un paio di decenni fa, ora è attorno al 61-62% , secondo l’Ocse. Nel mondo post-Grande Recessione, questo sta diventando un grande tema di discussione. Un calo di quattro punti percentuali può sembrare poca cosa. In realtà è un’enormità: in passato la quota di ricchezza che andava ai redditi da lavoro tendeva a rimanere costante. Il fenomeno è generale e in Italia particolarmente accentuato. Uno studio dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (Ilo) ha fissato a cento la quota di reddito che andava ai salari nel 1960 e ne ha calcolato la variazione successiva. In Italia è rimasta allo stesso livello fino all’inizio degli Anni Settanta , poi è scesa rapidamente e nel 2007 era a livello 85 . In Francia, sempre nel 2007 , è scesa a 88 , in Germania a 90 , nell’area euro a 89 . In Gran Bretagna è rimasta a quota cento ma bisogna notare che negli Anni Settanta e Ottanta era salita a 110 . La tendenza è la stessa per Stati Uniti (ma minore che in Europa), Canada, Cina, Giappone (che scende addirittura a 80 ), Australia, India.
Lo studio dell’Ilo — che si dichiara post-keynesiano, cioè particolarmente attento alla componente della domanda — trova una correlazione tra la caduta del monte salari e la crescita economica nei diversi Paesi, minore nei decenni in cui si registra un calo della quota di reddito da lavoro. Con l’eccezione non da poco, però, di Cina e India, dove pure la percentuale di reddito che va ai salari cala — attorno a 92 per i cinesi e a 79 per gli indiani — ma la crescita è molto forte. Inoltre, l’Ilo attribuisce le cause del fenomeno alle politiche «neoliberali» iniziate negli Anni Ottanta, in sostanza alle liberalizzazioni. Capire se sia proprio così è importante per stabilire cosa fare per modificare la tendenza, certamente non positiva.
Sul primo punto, il dubbio è che sia in realtà il rallentamento delle economie a trascinare un calo della quota del lavoro (essendo molte rendite indipendenti dall’attività economica). Sul secondo, c’è da notare che Paesi che più hanno liberalizzato, ad esempio Stati Uniti e Gran Bretagna, registrano perdite di quote del lavoro inferiori ad altri, come l’Italia e il Giappone, che di «neoliberismo» ne hanno visto poco. Piuttosto, sembrano essere la globalizzazione — con la corsa verso i salari più bassi — e le innovazioni tecnologiche — attraverso la sostituzione dei lavoratori con macchine — le forze motrici della tendenza. La prima in parte si sta correggendo, con l’aumento dei salari, in corso soprattutto in Cina. Sulla seconda si può intervenire solo attraverso una maggiore istruzione e formazione. Per il resto, meno tasse sul lavoro potrebbero aiutare. Resta il fatto che la questione è di rilievo assoluto: altri studi saranno necessari.