Farian Sabahi, Corriere della Sera 10/11/2013, 10 novembre 2013
LE SANZIONI HANNO FUNZIONATO VINCE IL «DISSENSO DEL BAZAR»
Le sanzioni contro l’Iran hanno funzionato perché hanno agito a più livelli. Particolarmente efficaci sono quelle contro il settore energetico decise dall’Unione Europea il 1° luglio 2012, cui sono seguite quelle del Congresso lo scorso 1° agosto: le esportazioni di oro nero sono crollate dai 2,5 milioni di barili al giorno del 2011 a poco più di un milione, privando le autorità della Repubblica islamica dei petrodollari che avrebbero elargito — in cambio di consensi — sotto forma di sovvenzioni, stipendi e servizi alla popolazione. Altre sanzioni hanno colpito il settore bancario e finanziario, impedendo di fare business con il resto del mondo e spostare capitali.
Non solo agli iraniani che vivono nella Repubblica islamica, ma anche alla diaspora negli Stati Uniti e nel resto dell’Occidente che per decenni ha investito i propri risparmi nelle banche di Teheran dove il tasso di interesse supera il 23 percento e da qualche anno fa non riesce più a farsi accreditare i profitti sui conti correnti in terra d’immigrazione.
E qui veniamo a un altro motivo per cui l’embargo ha funzionato:
penalizzando il settore bancario, le sanzioni hanno incrinato il rapporto secolare tra ayatollah e bazarì, la classe tradizionale dei mercanti che da sempre finanzia i seminari religiosi e i leader sciiti, e nel 1979 aveva permesso all’Ayatollah Khomeini di rovesciare la monarchia. Per obbligare la leadership di Teheran a sedersi al tavolo dei negoziati, le diplomazie occidentali hanno preso di mira proprio i mercanti: nell’impossibilità di ricevere pagamenti regolari per le merci esportate e nel trasferire denaro ai figli all’estero (dove vengono talvolta mandati a studiare e spesso restano per diversificare le attività di import-export delle famiglie), hanno espresso il loro dissenso, facendo pressione per un riavvicinamento con gli Stati Uniti e portando a un rilancio dei negoziati.
Quelli di questi giorni a Ginevra sono ad altissimo livello, e quindi sono un’ottima occasione per mettere fine a una guerra fredda che va avanti da 34 anni. Non è ancora detto che si giunga a un accordo, ma le premesse sono buone: su indicazione dei vertici venerdì gli imam che guidano la preghiera in Iran hanno chiesto alla popolazione di appoggiare il team che sta negoziando «da una posizione di forza e con dignità», l’arrivo del segretario di Stato John Kerry ha fatto capire alla delegazione iraniana che gli americani non li snobbano, e lunedì giungerà a Teheran il direttore dell’Aiea, l’agenzia internazionale per l’energia atomica.
L’Occidente chiede di fermare l’arricchimento dell’uranio e smantellare gran parte delle riserve, esige la dismissione delle sofisticate centrifughe IR2M e vorrebbe mettere in discussione il reattore di Arak.
In cambio, l’Iran avrebbe accesso a parte dei miliardi di dollari congelati nei conti all’estero e potrebbe usare oro e altri metalli preziosi nel commercio internazionale. Un alleggerimento secondario delle sanzioni, viene da chiedersi se sarà sufficiente a far evaporare la sfiducia di tanti iraniani, leader supremo incluso, secondo cui «per gli Usa il nucleare sarebbe solo un pretesto, risolto questo ci sarebbero altre scuse per continuare le ostilità».
Una sfiducia motivata, dopotutto il presidente americano George Bush non si era dimostrato granché grato nei confronti del riformatore Khatami quando gli aveva dato una mano in Afghanistan e in Iraq, dimostrando di essere «costruttivo e pragmatico». A ricordarlo non sono gli iraniani ma l’ex ambasciatore USA Ryan C. Crocker in un editoriale del 3 novembre sul New York Times . In ogni caso in questa fase gli iraniani devono fare di necessità virtù, per uscire dall’isolamento e spezzare il regime di sanzioni che colpisce l’economia e mette di cattivo umore la popolazione.
Per questo la carta che il team iraniano sta giocando a Ginevra è probabilmente la pacificazione di un Medio Oriente lacerato: se i negoziati sono proseguiti, nonostante l’aperta contrarietà di Israele e quella (meno palese) dei sauditi, è perché la diplomazia americana e iraniana stanno discutendo anche di Siria e di Hezbollah. Dopotutto, il
3 novembre il leader supremo Khamenei aveva dichiarato: «Prima risolviamo la questione nucleare, poi pensiamo all’asse di resistenza», facendo riferimento all’asse Teheran-Siria di Assad-Hezbollah libanesi.
E non dev’essere un caso che proprio a Ginevra si terrà la conferenza di pace sulla Siria, slittata ai primi di dicembre.