Antonio Gnoli, La Repubblica 10/11/2013, 10 novembre 2013
ENRICO LUCHERINI
Dalla finestra rialzata del pianterreno, in una via dei Parioli, Enrico Lucherini parla al cellulare di cinema. Tormenta gli occhiali. Si sporge, si inarca, si attorciglia. Non so quale film stia promuovendo. Ma dopotutto è irrilevante. In quella testa, un po’ scompigliata, il cinema irrompe come l’alta marea. E quando si ritrae lascia intravedere una miriade di oggetti. Sono quelli che vedo in giro nel suo studio: foto di lui nelle diverse età, attori e attrici. In una Florinda Bolkan balla con Richard Burton: «Feci credere che Liz Taylor aveva tentato il suicidio perché Burton voleva lasciarla per quella giovane brasiliana. Niente era vero, ma la storia fece incassare tantissimo al film di Patroni Griffi: Metti una sera a cena », ricorda con gioia Lucherini. Alle pareti e sulle porte locandine di film. Un manifesto duplicato sulla Dolce vita, mostra in uno il grande Marcello, nell’altro lui, Lucherini: «non sono male, è vero? È un montaggio che gli amici mi hanno regalato per i miei ottant’anni l’anno scorso». L’anniversario fu festeggiato con un libro (edito da Palombi) e una mostra all’Ara Pacis. In fondo, la storia di quest’uomo è lunga più di 800 film. Mentre parla si racconta e mentre si racconta, risponde al cellulare. Un garbuglio di frasi e di ricordi.
A cosa la rinvia il pensiero della Dolce vita?
«A una telefonata che ho ricevuto un po’ di tempo fa. “Pronto, sei Lucherini?” La voce è alterata, incerta, un po’ urlata. Sì, dico io, sono Lucherini. Chi è? “Sono Anita Ekberg, brutto stronzo”! Come dice? “Ti sei arricchito con quella foto”. Non capisco. “Certo che capisci e io per tutta la vita sarò ricordata solo per quella scena nella fontana, brutto stronzo”! Insomma, mi telefona, dopo anni, e mi insulta, neanche fossi il suo peggior nemico».
Ne ha molti di nemici?
«Qualcuno sì. Ma il cinema ha questo di bello, o di brutto, che quando ti vedi con qualcuno non fai che abbracciarti. Passi la vita a baciare, sorridere, accarezzare teste canute, calve, rifatte. È come se, improvvisamente, stringessi un’epoca che non c’è più. E allora anche quelli che ti hanno fatto un torto, o magari ne hai fatti tu a loro, si trasfigurano, cominci ad amarli, come fossero una parte di te».
Lucherini non mi faccia commuovere.
«Parlo seriamente, per quanto in me la serietà è sempre stata un problema».
Nel senso?
«Che ogni volta che apparivo serio avevo l’impressione di essere profondamente noioso. Detesto la noia e forse è la ragione per cui mi sono inventato questo mestiere che in Italia non esisteva».
Ma che mestiere è il suo?
«Sono un raccontatore di balle. Ma per farlo devi avere del talento. Ho cominciato molto giovane. Dopo una mancata carriera di attore ».
Mancata?
«Nel senso peggiore. Non ero adatto, di più: ero un cane».
Mi faccia capire: lei inizia come attore e, diciamo, scopre i suoi limiti?
«Andiamo per ordine. Provengo da una tradizionalissima famiglia borghese. Padre medico, ma di quelli illustri: il professor Tommaso Lucherini! Specialista in clinica generale. Mi iscrissi, per volontà paterna, a medicina. Quello è il figlio di Lucherini, mormoravano nelle aule universitarie. Odiavo la medicina, forse per non odiare mio padre».
E si laurea?
«Macché. Grazie al nome, passavo agli esami senza sapere niente. A un certo punto ho detto: se divento medico rischio la strage tra i pazienti. Poi, per fortuna, cominciarono a bocciarmi. Andai da papà e gli dissi: hai visto che disastro, non ce la faccio a studiare. Voglio fare l’attore. Mi guardò sorpreso e poi furente. Era come se gli avessi dato del figlio di puttana».
E lei?
«Da più di un anno frequentavo l’Accademia a sua insaputa. Ero Comunque lasciammo le cose in sospeso. Passarono alcuni mesi tra molte tensioni. Alla fine tornai sull’argomento. E lui, contenendo l’ira: non so se cacciarti di casa o chiamare gli psichiatri. Non me ne frega niente, io vado, gli dissi. Vai dove? Mi chiese. In Sud America».
E suo padre?
«Pensava fossi pazzo. In realtà, nei mesi trascorsi, ero riuscito a entrare nella Compagnia dei Giovani, dove c’erano Falk, De Lullo, Patroni Griffi e Valli. Cominciai con loro a recitare».
E pensò che fosse la sua strada?
«Dopo quella di Visconti, Morelli, Stoppa, la nostra era la compagnia più importante. Mi sentivo gratificato dalla bravura dei miei compagni. Ma anche ansioso, fragile, spaventato. Bastavano anche due o tre battute perché finissi nel panico».
Emotivo?
«In maniera catastrofica. Sul palcoscenico misuravo la distanza abissale tra l’idea che avevo dell’attore e la mia incapacità ad esserlo ».
E che idea aveva dell’attore?
«Di un individuo capace di trasformarsi fino a diventare qualcun altro. Parlo di un essere sovrannaturale che alla fine si materializza soprattutto nella nostra testa. Ricordo che ero poco più che un adolescente quando certe sere mi infilavo nella casa di Novella Parigini, in via Margutta. In quello studio – dove lei dipingeva soprattutto gatti – sono passati personaggi come Marlon Brando, Ava Gardner, Rock Hudson, Brigitte Bardot, e perfino il suo amico Jean-Paul Sartre. E io pensavo: che cosa ha di diverso da me questa gente?».
Cosa avevano di diverso?
«Pensavo: magari, che so?, hanno avuto i loro esordi difficili, subito umiliazioni, fatto compromessi. Ma poi qualcuno gli ha messo un paio d’ali e hanno cominciato a volare. Ecco, io volevo essere quello che fabbricava le ali».
Come riuscire a rendere famosa una persona. È questo che ha capito?
«Non era un pensiero chiarissimo. Poi, credo fosse il 1947, arrivò in Italia Gilda il film interpretato da Rita Hayworth. Clamoroso. Ma la cosa che mi fece scattare la luce fu che l’attrice, come in una calcomania, finì sulla punta dell’atomica lanciata nell’atollo di Bikini. Qualcuno aveva avuto l’idea di associare la bomba alla Hayworth. E tutti finirono per parlare di lei e del film».
Dedeterminatissimo.
«Da quel momento, tutta la mia vita è stata un rincorrere le immagini, selezionarle, montarle, imporle. Quando Bolognini mi chiamò per sto parlando del 1959, presi, nell’ultimo giorno di lavorazione, Rosanna Schiaffino, Elsa Martinelli, Anna Maria Ferrero e Antonella Lualdi e le feci immergere in una fontana del centro storico, in modo che i vestiti bagnati diventassero come una seconda pelle. Un gruppo di paparazzi le immortalarono, creando così uno scandalo mediatico che contribuì al successo del film».
La scena della fontana sarebbe poi tornata con Fellini.
«Ma la scena in cui Marcello entra nella Fontana di Trevi e recupera Anita, fui io a suggerire che diventasse l’emblema del film. Del resto, per quella scena Fellini si era ispirato tanto alla quanto a una foto che verso la fine degli anni Cinquanta immortalava Giò Stajano e Novella Parigini nelle acque della Barcaccia di Piazza di Spagna».
«L’invenzione è spesso solo una variazione sul tema. Di geni assoluti ce ne sono pochi in giro».
«Fellini e Visconti, in modi diversi, hanno rappresentato delle forme di genialità. E poi, mi viene in mente Orson Welles, con il quale però non ho mai lavorato. Ero talmente curioso di lui che andavo a spiarlo nella sua villa a Fregene, quando era sposato con Paola Mori, che aveva avuto una parte nel un film che lo accompagnò per vent’anni e che restò incompiuto. Vedevo questa figura gigantesca uscire sul giardino avvolto da un barracano che gli arrivava fino ai piedi e restavo come incantato».
«Dice bene: “attrazione”. Esercitata in un circo senza trapezi né belve. Solo lui, al centro della scena. Ripensavo alle sue storie, alle invasione degli extraterrestri, ai suoi film incredibili, alle sue donne, aveva divorziato da Rita Hayworth. E percepivo il potere di attrazione. Pari alla dissipazione del suo ingegno. Sono sempre stato affascinato da quelle persone che sembrano arrivare dal regno degli elfi ».
Ma un esteta come Visconti accettava le sue provocazioni?
«Era affascinato dai meccanismi mediatici, dai litigi, dal gossip. Sotto l’aristocratico e il comunista batteva un cuore da parrucchiera. Adorava il festival di Sanremo. Per anni ci siamo riuniti con un gruppo di amici a casa sua per vedere la manifestazione. Si aprivano le scommesse su chi avrebbe vinto. E Luchino quasi sempre riusciva a capire la canzone che avrebbe prevalso».
«Per tutti gli anni Sessanta la mia scrivania erano i tavolini di Doney. Lì si facevano le due o le tre del mattino. A volte si proseguiva nelle case degli amici. In piena notte suonavo dai Rosi, intendo Francesco e Giancarla. Lui spesso era già a dormire. Lei, una forza della natura, calamitava il meglio della vita romana. E poi c’erano i locali».
Le cronache riferiscono che fu il testimone del famoso spogliarello di Aiché Nanà.
«Eravamo al Rugantino. C’era molta gente, maschi in smoking e le donne in abito da sera. Si festeggiava il compleanno di Olghina de Robilant. A un certo punto l’atmosfera cominciò a surriscaldarsi. La musica divenne eccitazione. E questa giovane danzatrice turca, di professione, capitata lì per caso, cominciò a dimenarsi sul tavolo e a spogliarsi sotto l’incitamento dei presenti. C’erano i fotografi. Qualcuno chiamò la polizia che sequestrò tutti i rullini. Ma Tazio Secchiaroli fece in tempo a passarmi il suo. Fu così che quelle foto vennero pubblicate da allora in formato lenzuolo. La scena – che fu uno scandalo epocale – fu poi “citata” da Fellini. È vero, non si inventa nulla. Ma tutto passa».
È un modo che il tempo ha di vendicarsi della nostra presunzione
«Boh, non la conosco. Forse vedere Edda Ciano, che abitava poco distante di qui, girare la mattina con la borsa della spesa».
«Una pelliccia. Fu Mastroianni, che l’aveva indossata per un film, a regalarmela. Luchino ne aveva una simile. Sul set di sembravamo Totò e Peppino alla Stazione di Milano».
Due attrici che per ragioni opposte l’hanno colpita.
«di Fellini, film per il quale non stravedo, mi colpì Giulietta Masina nel ruolo di Gelsomina. Sembrava il sosia di Macario. In positivo l’urlo della Magnani in Sembrava stesse facendo una visita di Stato. Volle tutto il sesto piano dell’Hassler e una stanza riadattata a palestra. Lì capii che la globalizzazione poteva produrre danni irreparabili. Invece è stata una gioia lavorare con George Clooney e Woody Allen. De Niro un gran «Io recito nella vita, è stata la mia vendetta sul palcoscenico».
«Sono un disastro. Dimentico i nomi delle persone. O li confondo. Dico sempre: “quello là”».
«Non ho avuto ancora tempo per capirla. Ogni tanto si blocca un ginocchio, ed è un richiamo alla realtà. Ma non ho paura di morire. È una frase che non mi appartiene».
«Penso agli amici vivi e al lavoro. E se proprio, in qualche sera malinconica, non posso farne a meno, allora mi viene in mente un verso di non ricordo più chi. Mi pare dica: che la morte sia come una paloma blanca, che ascoltavo alla radio, sulla mia stanca spalla si posi dolcemente».