Federico Capitoni, La Repubblica 10/11/2013, 10 novembre 2013
UTO UGHI
ROMA «Si ricorda come dice il poeta?». Uto Ughi ti fredda a ogni pie’ sospinto, e tu che cerchi di afferrare il riferimento letterario prima di fare una brutta figura. Uno dei più noti violinisti al mondo ama citare in continuazione interi passi, che ha mandato a memoria, dei libri della sua vita: «Quando non suono, leggo. E sottolineo le cose che mi somigliano di più». Nel suo appartamento romano, dal quale si vede netta la cupola di San Pietro e in cui confessa però di passare solo pochi mesi l’anno («Saranno tre in tutto, sono sempre in viaggio per i concerti) sembrano esserci più libri che dischi, più letteratura che musica. «La lettura ha per me un posto primario. E devo dire che se è molto comune l’interesse dei musicisti per la letteratura, più raro è quello dei letterati per la musica. Mi ricordo Borges, mio amico e piuttosto a digiuno di musica, che mi diceva: “Una delle mie grandissime colpe è che non sono degno di un concerto per violino”».
Comincia presto la storia musicale di Ughi, ed è quella tipica di tanti musicisti di successo. Inizia a imbracciare il violino a soli tre anni, spinto com’è da una predisposizione lampante per la musica. A dieci anni è già a Parigi a prendere lezioni da un grande del Novecento, George Enescu. Da adolescente è in giro per il mondo a dare concerti. Una carriera di successi conseguiti da subito, nonostante qualche mossa sbagliata, come quando rinuncia a seguire David Ojstrach in Russia per prepararsi al più prestigioso e difficile premio violinistico, il Tchajkovskij: «Quello è un super rimpianto, mi è rimasta la sensazione di aver perso un treno. Un’esperienza con un grande come lui sarebbe stata molto importante; avevo sedici anni non ebbi il coraggio di partire per la Russia. Ed è strano perché di natura sono avventuroso, mi piacciono le esplorazioni, ma in quel caso mi mancò lo slancio». Il talento di Ughi è però sufficiente perché il suo violino lo porti a risultati straordinari, anche non previsti: «Ho iniziato a fare musica molto presto ed era il mio maestro che mi spingeva a fare qualche concerto per prendere familiarità col pubblico. Le cose sono venute da sole, non ho mai deciso di fare il concertista. Mi sono accorto che avevo delle possibilità dagli inviti che ricevevo, dalle personalità che mi avvicinavano. E poi perché avevo la gioia di suonare, senza di quella non si va avanti. Io non ho mai pensato alla carriera, è una cosa che viene o non viene. Allo stesso modo spero di accorgermi in tempo se non sarà più il caso di continuare. Se non sarò più in grado di fare delle esecuzioni decorose, sarò il primo a dirmi di smettere per dedicarmi magari all’insegnamento. È difficile come artista valutarsi per ciò che si è, ma bisogna avere la forza e il coraggio di guardarsi allo specchio. La musica è una sfida infinita, è una battaglia continua ingaggiata con la materia e la materia è la tecnica: ciò che sembra perfetto oggi domani non lo è più. C’è sempre qualcuno che, proprio quando pensi di aver raggiunto il massimo in un’interpretazione, fa meglio di te».
Sono gli incontri, e anche gli scontri, con i grandi musicisti quelli che alimentano la voglia di migliorarsi e continuare. Ughi ha conosciuto le maggiori personalità musicali della seconda metà del secolo scorso. Dalle parole esortative di Sergiu Celibidache ai capricci, sempre perdonabili, di Martha Argerich, ogni volta ha imparato qualcosa: «Qualsiasi incontro con un grande artista o con la sua musica è una trasfusione di sangue nuovo, sono arricchimenti di cui non si può fare a meno. Quello che muove l’artista è l’amore. Tutti i grandi artisti che ho conosciuto erano grandi per questo. La mia passione per la musica è la stessa di quando ero ragazzo, spero non si esaurisca mai». Intanto a un libro ha affidato alcuni dei più rilevanti ricordi della sua vita anche di musicista: le vicende raccontate in Quel diavolo di un trillo, pubblicato da Einaudi, vanno dall’infanzia a Busto Arsizio alla carriera internazionale in tutto il pianeta. «Accettando di scrivere ho tenuto a mente Cicerone quando scrive che un uomo che raggiungesse il cielo e le stelle sarebbe triste di non poter comunicare quello spettacolo. Ecco, l’arte, a un livello spirituale, come pura astrazione, non serve. Deve incontrare la materialità terrena ed essere comunicata agli uomini».
A sessantanove anni Ughi è convinto di avere ancora molto da fare, di confrontarsi col repertorio classico e con le interpretazioni dei maestri e di affrontare la musica contemporanea dalla quale però sembra faticare a pescare: «Il violino è uno strumento prevalentemente lirico, melodico; la musica di oggi non sempre lo è. Per quanto mi riguarda il grande repertorio violinistico si esaurisce nella prima metà del Novecento. Però ci sono compositori ancora in vita — come Penderecki, Gubajdulina, Pärt, Dutilleux — che sono riusciti a continuare la tradizione in un campo nuovo di ricerca». Ma soprattutto Ughi non pensa solo a sé. Si impegna da anni per una ripresa della musica in Italia: «Ho viaggiato molto, ho suonato in angoli remoti del pianeta dove quasi non c’è cultura musicale. Quando fai bene la bella musica, vedi la gioia negli occhi delle persone. Noi in Europa, culla della civiltà musicale, oggi siamo surclassati dagli orientali perché lì i ragazzi studiano musica per essere persone migliori, non necessariamente per diventare professionisti». Con rabbia tratteggia il quadro desolante della cultura musicale italiana: «Nelle scuole non si fa niente. E credo che sia colpa anche dei musicisti: se non si muove il Ministero, dobbiamo farlo noi. Io sono andato più volte da più ministri dell’istruzione chiedendo di istituire cicli, corsi, lezioni… Ma sono tutti sordi. Quel poco di musica che si ha nelle scuole è fatta malissimo, sarebbe meglio lasciar stare. Il nostro è un Paese in cui si mettono gli insegnanti sbagliati nei posti sbagliati. I ministri credono di spadroneggiare e invece è il contrario, sono loro a dover essere al servizio dei cittadini. E che dire poi della musica in chiesa: nenie orrende. Ho parlato con Monsignor Ravasi, mi ha promesso che farà qualcosa per recuperare il valore della musica sacra, ma anche qui non si muove niente. Forse bisogna che intervenga direttamente il Papa. Lui è una figura che mi piace, uno che si mette al servizio dei fedeli». L’impegno di Ughi nella diffusione della cultura musicale ha spesso avuto comunque esito positivo, per esempio qualche anno fa sulla Rai: «Facevo delle puntate da varie parti del mondo, cercando di legare la musica ai luoghi e alle altre arti. Se la musica si spiega, si collega al contesto, senza ricorrere però troppo alle parole, funziona anche in tv». Viene fuori dal maestro, spessissimo mentre si conversa con lui, un’incrollabile voglia di migliorare le cose, di salvarsi. Forse è lo stesso spirito del padre, che aveva fatto la guerra e che in guerra aveva perso il fratello, Bruto, di cui Uto è il diminutivo dato al bimbo che oggi si interroga, ma con fiducia, sul nostro futuro. «Dipende da noi, ogni singolo individuo deve fare qualcosa. Io nel mio piccolo cerco di dare un contributo, ma mi rendo conto di essere quasi fuori dal tempo: la musica non può risolvere i problemi, è un aiuto a sollevare moralmente. Credo sia ora di mettere da parte gli interessi personali, di fare le cose per la comunità e non per se stessi. Mi piace ricordare l’associazione Arturo Toscanini, con cui collaboro da qualche anno. Loro hanno iniziato con poco in provincia, oggi sono una realtà nazionale. La musica avrà un futuro se ci saranno persone così generose che non fanno le cose per soldi ma per allargare la cultura». Ughi cita Edmund Burke: «“L’unica cosa necessaria per il trionfo del male è l’inerzia dei buoni”. La quiescenza è la colpa. Non possiamo cambiare da soli un Paese, ma possiamo influenzare le scelte. Si deve denunciare ciò che non va, contestare, costringere alle dimissioni. Bisogna avere coraggio, cosa che oggi è rara per paura delle ripercussioni. Il nostro errore è l’omertà».