Guido Andruetto, La Repubblica 10/11/2013, 10 novembre 2013
JANNACCI TUTTO SU MIO PADRE
MILANO «Papà diceva sempre che non riusciva ad andare in montagna perché gli mancava il tram». Paolo Jannacci sorride e si emoziona mentre guarda i binari che circondano il monumento alle Cinque Giornate, zona Porta Vittoria, una di quelle a cui è più affezionato e che anche Enzo amava molto. Amava tutta la città, sempre ricambiato.
A poco più di sette mesi dalla sua scomparsa Milano gli renderà omaggio ancora una volta, tra pochi giorni, il 18 novembre, a Palazzo Marino, Sala Dell’Orologio, quella delle grandi occasioni. Verrà presentato qui il suo album postumo (L’artista uscirà il 26 novembre per l’etichetta Ala Bianca). Ed è questa l’occasione che ha spinto suo figlio Paolo a riannodare il filo dei ricordi e ripescare dall’album di famiglia vecchie fotografie — Enzo giovane, lui bambino — e poi tanti appunti, fogli volanti, bloc notes d’hotel, sacchetti per il mal d’aria dell’ Alitalia, sui quali il padre provava testi, bozze di sigle, scalette, amari sfoghi e dolcissimi pensieri. Come questo, «comunque vada ti sono vicino e ti voglio bene», e si rivolgeva a un figlio con cui condivideva tutto, anche l’incantesimo della musica.
Seduti su una terrazza di un bar del centro, adesso Paolo ricorda: «Mi vengono in mente certi suoi silenzi, e ce ne sono stati tanti, e ognuno aveva un suo senso. Poteva essere l’attesa, l’intesa, o lo stupore. A volte è solo con il silenzio che parlavamo. Ma non ci siamo mai allontanati. La nostra relazione era fatta di vicinanza e di complicità. Quando mi scrisse quel bigliettino voleva farmi capire che l’importante è volersi bene e che tutti i problemi si possono superare. Non ha mai smesso di reggermi sul piedistallo, per tutta la vita lo ha fatto».
La vita è sempre stata il cuore delle canzoni di Enzo Jannacci, un mondo di parole e di note in movimento in cui si mescolano poesia, arte, intrattenimento, cabaret, teatro, attualità. «Le canzoni del papà sono sempre state molto fedeli alla sua linea di pensiero. Era un libero pensatore, diceva quello che gli sembrava più corretto, sempre, anche nel suo lavoro di medico. Credeva che la vita dovesse essere vissuta in un determinato modo e che ci fossero delle cose più o meno sbagliate, più o meno divertenti da dire, e le raccontava, semplicemente. Mi fa piacere che oggi la gente stia mostrando interesse verso i suoi brani più datati, intendo quelli scritti negli anni ’60, perché se uno scopre oggi che certe cose le diceva già cinquant’anni fa, allora significa che la realtà e i rapporti tra le persone non sono poi cambiati così tanto». Paolo si interrompe, prende fiato, è una mattina assolata di novembre, sembra quasi primavera a Milano, e gli occhi gli brillano. «Questo album è una scommessa. Voglio che sia perfetto, stiamo ancora rivedendo tanti di quei dettagli in questi ultimi giorni... Sarà un disco popolare».
Del contenuto non è dato sapere granché, se non che ci sarà un solo brano inedito, Desolato, con musiche di Paolo e testo scritto da Enzo e dal rapper J-Ax. Non mancheranno alcuni cavalli di battaglia: La sera che partì mio padre, Maria me porten via, Un amore da 50 lire, naturalmente L’artista.
«Sono canzoni che adoro cantare — confessa Paolo, polistrumentista con una vocazione per il jazz e la musica leggera — se vogliamo forse le più ingenue, ma solo perché raccontano storie facili. Prendi Un amore da 50 lire, dove c’è questo povero che si innamora di una ragazza e le fa la corte, ma alla fine lei gli allunga 50 lire perché è convinta che stia lì a chiederle la carità. Storie minime, ma che mettono a nudo le emozioni, e anche un certo modo di vedere la vita. Musical me lo ricorda subito, mi ricorda com’era fatto, come viveva la musica.
E allora…Concerto invece tira in ballo me perché mi sento ancora un ragazzino che può sbagliare. Mio papà era uno sapeva andare dritto al cuore delle questioni. Soprattutto negli ultimi anni toglieva tutto quello che non era utile. Privilegiava la sostanza alla forma. Una capacità che hanno solo i grandi artisti». E Jannacci lo è stato. «Ha sempre avuto rispetto per il pubblico e questa cosa me l’ha inculcata a martellate. Mi ha insegnato l’importanza di rispettare gli altri, il bene comune. Sono valori importanti che a mia volta sto cercando di trasmettere a mia figlia».
Paolo Jannacci ha quarantuno anni che non dimostra. Sa bene che la passione per la musica è «un dono» e anche che «poi il talento devi coltivarlo, mantenerlo, e quando fai fatica a studiare diligentemente ti senti in colpa, lo senti tutto il peso della responsabilità». E poi c’è il pianoforte, «il migliore amico di papà e anche il mio. Diceva che era l’unico che non lo aveva mai fatto uscire con le ossa rotte, il solo che non lo aveva mai tradito, quello che sapeva ascoltare i suoi segreti più intimi». E poi ancora c’è la televisiùn, quella che la g’ha na forsa de leun: «Quella che faceva lui mi è sempre piaciuta molto. E penso a Saltimbanchi si muore, super sperimentale, e poi a Ci vuole orecchio, Gran simpatico e a Trasmissione Forzata, con Dario Fo. Io e lui insieme negli anni Novanta abbiamo fatto Milano Bolgia Umana.
E poi lo speciale diChe tempo che fa da Fabio Fazio, bellissimo, quello lì se lo ricordano tutti....». Riprendiamo a passeggiare e davanti a noi scorre la Milano dell’Expo che sarà, con la sua nuova skyline: «Non era mica un nostalgico, uno di quelli ancorati all’idea della vecchia Milano, all’immagine del Naviglio per dire. Al papà le novità piacevano, tutto quello che era nuovo lo incuriosiva, grattacieli compresi. Sapeva che le radici sono importanti ma allo stesso tempo guardava con interesse ogni elemento d’innovazione, di cambiamento. Ovvio, oggi è cambiato radicalmente il mondo del lavoro che lui ha raccontato in canzoni come Vincenzina e la fabbrica, adesso le fabbriche si svuotano, ma non importa, quello che lui e Beppe Viola volevano cantare era, credo, la tristezza di entrare lì dentro per essere sfruttati».