Simonetta Fiori, La Repubblica 10/11/2013, 10 novembre 2013
MA PERCHE’ I COMUNISTI MANGIANO I BAMBINI?
Oggi dicono che accada il contrario, che siano i bambini a mangiarsi i comunisti, o quel che resta di loro. Ma quella dell’orco rosso, terrifico divoratore dell’infanzia, non è una favola che si possa facilmente liquidare. Perché come tutte le leggende racconta molti dei pregiudizi, degli odi e dei timori di una comunità. E nel nostro caso racconta la storia di un Paese che fatica a crescere, ancora prigioniero d’una credulonità contadina e di un’eccitazione emotiva comprensibile solo in tempo di guerra. Un’Italia che ancora non riesce a chiudere completamente con una delle invenzioni più fortunate e resistenti della comunicazione politica novecentesca. La bestia di Pollicino ridipinta con le sembianze mongole di Stalin. O, più in generale, la leggenda dei comunisti che si nutrono di carne tenera.
Lo specchio moltiplicatore del web la riproduce ovunque nella scena planetaria. Basta un click perché si riverberi in tutte le lingue del mondo. Uno storico da sempre attento alla mentalità, Stefano Pivato, s’è preso la briga di andare a contare i siti sull’argomento, stupefatto dall’enorme diffusione del mito. Ma soltanto da noi può vantare un record che attiene alla durata e soprattutto al suo radicamento, non solo nei recessi dell’immaginario popolare ma nella dignità ufficiale della sfera pubblica. Ed è il bel saggio di Pivato a farcelo notare (I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, Il Mulino). Dal ventennio nero a quello azzurro, dagli articoli di Mussolini a quelli contemporanei del Giornale, da Guareschi a Berlusconi, passando per Cossiga che regala gustose bamboline di zucchero al neopremier D’Alema, il ceto politico e intellettuale italiano si mostra affezionato a uno degli archetipi più perturbanti della vulgata anticomunista. E se non mancano le ragioni storiche — la lunga esperienza del fascismo che di quel mito fu l’iniziale propagatore e la presenza in Italia del più grande partito comunista d’Occidente — bisognerebbe però affidarsi a un bravo psichiatra collettivo per risalire alle cause di una patologia ancora corrente.
A svuotarne il senso originario non sono bastate neppure le armi della satira, che ha risposto con oltre cinquant’anni di ritardo a un accorato appello di Pietro Ingrao rivolto all’intellighenzia italiana: «Ci sarà mai uno scrittore che sappia bollare questi seminatori di discordia?». Ci ha provato Paolo Villaggio in uno dei suoi racconti surreali, immaginando un ingolosito Togliatti che ordina bambini fritti, mentre Nenni appesantito da una fastidiosa gastrite ne ordina uno crudo, «possibilmente ancora vivo». E se Gaber cantava «Qualcuno era democristiano perché i comunisti mangiavano i bambini», più di recente Crozza ne ha ricavato un personalissimo albero alimentare: «Fassino è la dimostrazione che i bambini non fanno ingrassare». Ma soltanto sette anni fa Palazzo Chigi doveva chiedere scusa al governo di Pechino per una gaffe del premier, che aveva evocato prelibati bolliti di neonati in salsa cinese.
Come tutte le leggende, anche questa dell’antropofagia comunista parte da un elemento di realtà, che però viene stravolto nell’estro cupo della propaganda. E l’origine va cercata nelle pratiche cannibaliche fiorite in Urss tra gli anni Venti e Trenta nei luoghi delle carestie. Figli sbranati per fame. Costolette umane servite al mercato nero. Vedove che rivendicano la carne del marito morto. E genitori allucinati che per nutrire i primogeniti sacrificano i minori. Tragedie della fame che con passo biblico sono state narrate da Koestler, da Salamov, da Grossman e da una preziosa letteratura storiografica che ha fatto luce sulle grandi carestie sovietiche e più tardi sull’assedio di Leningrado. Storie terrificanti che però ci parlano non di comunisti vocati al cannibalismo per cieca fede, bensì di povera gente vittima del comunismo, condannata a farsi bestia anche in conseguenza della sciagurata collettivizzazione forzata delle campagne voluta da Stalin. Quello dell’antropofagia — ci ricorda Pivato — è un fenomeno trasversale alle diverse nazionalità, dettato da condizioni eccezionali e non dal credo politico. Il regime sovietico tentò di soffocarlo con il carcere e le fucilazioni. Ma la propaganda di Mussolini fu abile nel trasformare la disperazione in ideologia, promuovendo la cannibalizzazione a metafora di un sistema vorace. In questa operazione fu certo aiutata dalle prime notizie — queste sì veridiche — che giungevano dall’inferno comunista, tra i gulag e le esecuzioni di massa. E il clima di forte emotività portato dalla guerra avrebbe fatto il resto.
L’orco comunista arrivò in Italia nel Natale del 1943. Le famiglie furono raggelate da un articolo comparso sulla prima pagina de La Stampa.
“I ragazzi e bimbi italiani saranno deportati in Russia. Partiranno dalla Sicilia per un viaggio lungo lungo, che per i più non avrà ritorno”. Anche qui la fantasia dei cronisti galoppò a briglia sciolta. Scene di disperazione nei porti dell’isola. Donne straziate dal dolore. Padri suicidi insieme ai figli, strappati con la morte a un destino crudele deciso niente meno che da Vysinskij, procuratore generale delle grandi purghe staliniane. La notizia ballò per giorni e giorni, con tanto di naufragio di una delle navi e una crescente corresponsabilità di alleati inglesi e americani. I disegni di Walter Molino sulla
Domenica del Corriere e i manifesti della Repubblica Sociale provvidero a fornirne una documentazione iconografica. Naturalmente si trattava di una “bufala”, una delle più clamorose costruite dal fascismo durante la guerra. Nessun bambino italiano fu deportato in Unione Sovietica. Ma la favola era già scritta, nutrita dai timori ancestrali di una comunità scossa dalla guerra. Nell’immaginario nazionale era entrato il terribile Moloch rosso.
La storia però resterebbe incompleta se non aggiungessimo che in Italia l’orco esisteva già da tempo. E non con il volto peloso di Stalin ma in abiti talari, «simbolo di un fagocitante cannibalismo cattolico ». Pivato evoca le tavole di Galantara — irriverente vignettista anticlericale — che sul finire dell’Ottocento riproduceva «preti e frati con sembianze feroci dietro le sbarre di una prigione». O anche «nell’atto di stritolare tra le mani fanciulli indifesi ». O ancora «con bocche smisurate pronte a inghiottire frotte di scolaretti». Era in gioco il controllo dell’educazione dei bambini, che con la nascita dello Stato italiano era stata affidata alle scuole laiche. La satira cattolica non restò certo a guardare, sfigurando in panciute fattezze i nemici della sinistra accusati di furto di tessere. Un appetito bestiale si stava impadronendo dell’iconografia e del linguaggio pubblico italiano, presto tradotto nelle sembianze di lupi, pescecani, avvoltoi, piovre e serpenti scagliati contro il nemico. Cominciava così quella «zoologia del terrore» che avrebbe caratterizzato la cannibalizzazione politica del Novecento.
Da qui arriva anche il nostro orco comunista, che attraversa indenne il XX secolo. Fino a far capolino nelle redazioni e nelle istituzioni pubbliche del nuovo millennio. Anche quando i comunisti non ci sono più. E quel polveroso Barbablù rischia di diventare la favola triste di un paese mai diventato adulto.