Filippo Ceccarelli, La Repubblica 10/11/2013, 10 novembre 2013
IL DIVORZIO DEL FONDATORE TRADITO TRE VOLTE DAL PARTITO ETERNO OSTAGGIO DELLE FAZIONI
ADDIO Prodi, eh sì, “senza polemica”: e a pensarci bene è proprio quest’assenza di acredine, questo vuoto di animosità, nemmeno l’ombra di una possibile rivalsa, a dare il senso dell’autentico distacco.
Addio Pd. Prevedibile o meno che fosse si consuma l’epilogo, il partito immerso nelle sue più riprovevoli beghe e il Professore che nemmeno ritiene di commentarle perché troppo lontano, anzi ormai “fuori”.
E così solo nella tempestosa vicenda della sinistra italiana poteva insediarsi la figura, al tempo stesso ovvia e contraddittoria, del Vincitore Sconfitto, del Fondatore Rinnegato. Un finto buono, un leader caparbio e tutto sommato gioviale che rinunciando alla tessera e disertando le primarie fa rotolare la più pesante pietra sul sepolcro del partito che per primo e più di ogni altro egli ha voluto.
Certo non il Pd com’è oggi. Il mancato amalgama per eccellenza; un’entità defunta prima ancora di nascere, una congerie di appetiti che tiene insieme il peggio della tradizione comunista e di quella democristiana. Non si fatica a descrivere con severità tale oligarchica e litigiosissima creatura, nel corso degli anni specializzatasi soprattutto nello spegnere qualsiasi speranza, nel far pentire il prima possibile chi, nella solitudine dell’urna, per disperazione ha messo la croce su quel simbolo così freddo e così inutile.
La post-politica vive anche di mimica, per cui forse basta immaginare il faccione di Prodi, già presidente dell’Unione europea, quando ha saputo che in certe zone tesseravano gli albanesi, i bengalini, i rom; e poi anche quando gli hanno detto — è notizia di giornata — che nel pieno del caos congressuale si è riaperta la più ricorrente, comica e vana questione che fin dall’inizio, ma secondo misteriosi e pretestuosi algoritmi, rallegra e affligge il gruppo dirigente, e cioè la collocazione europea del Pd, se cioè esso vada compreso, sia pure ormai in grave ritardo, nell’alveo della socialdemocrazia europea bla-bla-bla; o non si è mai capito bene dove altro, ma l’onorevole Fioroni certo lo sa, potrebbe collocarsi — sempre che non si faccia decidere ai nuovi iscritti extracomunitari.
Tutto insomma lascia pensare che da
un certo tempo e con fondate ragioni Romano Prodi si sentisse indifferente al Pd. E ciò senza che in tale comprensibile atteggiamento influisse, su di un piano più personale, quel formidabile tris di fregature, per non dire quelle tre ferite infertagli alle spalle, che gli attuali dirigenti del Pd, in varie e mutevoli combinazioni e perciò anche con ruoli alternati, gli hanno comunque rifilato in appena quindici anni, un record.
Ma nel riepilogarle anche sommariamente, la caduta del suo primo governo (ottobre 1998), la caduta del suo secondo (gennaio 2008), l’impallinamento a volto coperto della candidatura al Quirinale (aprile di quest’anno), più che le oscure e diavolesche mire dei suoi inaffidabili “alleati”, più delle obiettive complicità dei comprimari, da Cossiga a Bertinotti a Mastella, colpisce il senso generale della sua avventura politica e di potere, specie in rapporto al presente.
Per cui, se la parola Ulivo sembra del tutto espunta dal vocabolario politico, più passa il tempo e più Prodi, come leader ma anche come persona, come cultura progettuale e come stile di comando, come esperienza di governo e come tratto di costume, insomma risulta estraneo non solo e non tanto al Pd, ma all’intera scena politica italiana.
A quest’ultima, più che gli obiettivi successi di governo e l’invincibilità elettorale ai danni di Berlusconi, lo tengono semmai inchiodato gli inganni orditi ai suoi danni, che i suddetti inaffidabili “alleati” ogni volta si precipitano a negare, come timorosi della sua vendetta, ma anche per questo, come si è visto mesi orsono, pronti di nuovo a tagliargli l’erba o a tirargli via il tappeto da sotto i piedi.
Così, se si scrive che nel 1998 fu D’Alema, con la partecipazione straordinaria di Marini, a favorire la fuoriuscita di Prodi da Palazzo Chigi, per poi mettercisi lui, guardacaso, ecco che immediatamente insorge il leader Maximo producendo ricostruzioni storiche aggiornate e collaterali; così come, se si ipotizza con qualche pezza d’appoggio che nel 2007 fu Veltroni a preparare al Prof la via del congedo dichiarando ad Orvieto che il Pd sarebbe andato alle elezioni da solo, Walter non solo si avvilisce, “ma è l’unica cosa che ancora oggi mi fa infuriare”.
E allora saranno stati campi magnetici, o frutti d’equivoci, come la standing ovation che precedette la solenne trombatura decretata dai 101 franchi tiratori. E posto che in politica il tradimento è un’entità relativa, e che lo stesso Prodi non è esente da debolezze strutturali ed inconfessati errori, resta un fatto del tutto rimarchevole che egli sia rimasto vittima di gente assai peggiore di lui, e che oggi, da Vincitore Sconfitto trovi assai poco allettante, nel affannoso pista-pista precongressuale, il generico nuovismo di Renzi o l’arcano orizzonte di Cuperlo.