Paolo Mastrolilli, La Stampa 10/11/2013, 10 novembre 2013
LA COPPIA PRESIDENZIALE CHE INVENTÒ LA POLITICA DELLO STILE
Magari adesso pensate che fossero solo vestiti, cappelli, occhiali da sole e scarpe, ma in realtà erano quasi un manifesto: «Quello che John Kennedy faceva con la politica - spiega Hamish Bowles - Jacqueline lo realizzava con lo stile. Entrambi si esprimevano anche attraverso la moda e i comportamenti, e il loro messaggio era chiaro: noi americani possiamo diventare migliori di quello che siamo. Meno provinciali; più capaci di ispirare la nostra società, e il mondo intero, a sollevarsi verso aspirazioni maggiormente nobili».
Camelot è diventata Camelot perché ha saputo trasformarsi in icona, comunicando anche attraverso lo stile. E nessuno ha studiato questo aspetto dei Kennedy quanto Hamish Bowles, braccio destro di Anna Wintour a Vogue, ma soprattutto curatore della mostra su Jacqueline che il Metropolitan Museum of Art ospitò nel 2001, pronunciando la parola definitiva sull’influenza che la coppia presidenziale era riuscita ad avere in tutto il mondo.
Lei ha detto che Jacqueline usava le sue scelte stilistiche come metafora visuale delle proprie aspirazioni culturali: quali obiettivi sperava di raggiungere?
«Spingere l’America ad avere fiducia in se stessa, andare oltre quello che era stata fino ad allora, alzarsi verso mete politiche e culturali ancora più ambiziose».
Attraverso i vestiti?
«I vestiti, la moda, i comportamenti, lo stile. Tutto questo serviva a comunicare una visione nuova».
A cosa si ispirava lo stile di Jacqueline?
«Certamente era eurocentrico e francofilo, direi un’eleganza patrizia. Questo però valeva per le situazioni in cui svolgeva pubblicamente la funzione di First Lady. Nei momenti privati era assai più informale e semplice, come una donna americana degli anni sessanta, ma non meno particolare e comunicativa».
Non era un atteggiamento offensivo, nei confronti degli americani?
«Al contrario. Era un invito a migliorarsi, sentirsi bene nei propri panni, e diventare sicuri di se stessi anche nel campo della moda. I suoi stilisti preferiti erano Givenchy e Balenciaga, e Parigi era il punto di riferimento. Poi però aveva lavorato anche con Oleg Cassini e altri designer americani, creando linee che riflettevano lo spirito del proprio Paese. C’era una sorta di orgoglio nazionale, in questo sforzo di elevare la moda locale sopra gli standard europei».
Ma se persino il marito si arrabbiò, per i soldi che aveva speso una volta da Balenciaga.
«Le First Lady che l’avevano preceduta erano certamente più middle class di lei, e la sua eleganza eurocentrica poteva metterla in cattiva luce agli occhi dell’opinione pubblica. Alla fine però avvenne il contrario. La gente capì che stava cercando di sollevare il Paese e spingerlo a dare il meglio di sè, come John faceva con la politica».
Anche lui aveva creato uno stile.
«Senza dubbio. Pensate a come si presentò per il famoso dibattito televisivo con Nixon: abbronzato, elegante, sicuro. Sembrava un protagonista di “Mad Men”. Aveva creato l’immagine dell’uomo moderno dinamico».
I Kennedy erano più veri nei momenti formali, o in quelli privati?
«Jacqueline viveva il ruolo di First Lady come un’attrice che deve interpretare una parte. All’inizio soffriva la Casa Bianca come una gabbia, ma poi si era adeguata e aveva portato dentro la sua vivacità. Le immagini famigliari di Hyannis Port, però, hanno fatto il giro del mondo, ispirando una nuova concezione della coppia moderna di potere».
Da come la mette lei, sembra che l’Europa avesse influenzato la coppia presidenziale più dell’inverso.
«Diciamo che ci fu un grande dialogo transatlantico. I Kennedy erano affascinati dal Vecchio Continente e cercarono di importarne la sofisticatezza, ma lo fecero con un tratto tipicamente americano, che finì di ritorno per affascinare l’Europa».
Tra i tanti abiti di Jacqueline, a parte quello rosa di Dallas tragicamente macchiato dal sangue del marito, quale ha avuto più importanza?
«Direi due: quello che indossò il giorno dell’Inauguration, che diede subito il tono del suo stile, e quello che mise all’arrivo della visita in India. Nel primo caso, era circondata da vistose signore in pelliccia; nel secondo, da donne che indossavano coloratissimi sari, a cui lei stessa si era ispirata per il proprio vestito. Eppure la personalità che emergeva nettamente, in entrambe la situazioni, era sempre lei».
Oggi è ancora possibile avere una simile influenza con lo stile?
«Forse anche di più, grazie ai nuovi media. Basta guardare come ci sta parlando Michelle Obama. Dobbiamo applaudire chi ha il coraggio di comunicare anche attraverso lo stile».