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 2013  novembre 10 Domenica calendario

KENNEDY, UN MITO COSTRUITO IN FAMIGLIA


Nel romanzo di Stephen King «22/11/’63», data dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, il protagonista Jack Epping trova una «porta» per viaggiare nel tempo e cerca di salvare a Dallas il giovane presidente americano, bloccando Lee Oswald. Fantasia formidabile, salire al magazzino dei libri, disarmare il killer dal fucile italiano Mannlicher-Carcano con il quale aveva già cercato di uccidere il generale Walker, cambiare la storia in bene. Mezzo secolo dopo i Mille Giorni kennedyani ripercorriamo in tanti il tunnel del tempo come Epping, un viaggio impossibile, realtà e mito sono così intrecciati da lasciare senza risposta l’enigma cruciale, non «Chi ha ucciso JFK?», ma «Chi era JFK?».
La mitologia propone un leader che – senza l’ex marine Oswald, convertito al comunismo, emigrato in Urss dopo avere lavorato al progetto degli aerei spia U2 – avrebbe chiuso la guerra in Vietnam, eliminato la segregazione razziale, chiuso la Guerra Fredda. I documenti contrastano con la fiaba, Kennedy era un anticomunista radicale detestato dalla moglie di FDR, Eleanor Roosevelt, perché tiepido sulla caccia alle streghe del senatore McCarthy, di cui il fratello Bob era collaboratore, che in Congresso si appoggia ai segregazionisti del Sud, attaccato dal reverendo King, da sua moglie Coretta, dal primo asso nero del baseball Robinson: «Io voto repubblicano!».
La maturazione di Kennedy gli farà progettare solo nel 1963 le storiche leggi che poi il suo successore Johnson varerà, il «Civil Rights Act 1964» e il «Voting Rights Act 1965», fine della segregazione seguita alla Guerra Civile. Perfino le riforme sanitarie per poveri e anziani, Medicare e Medicaid – nonne della controversa Obamacare –, passano in Congresso perché il manto del martirio del primo presidente cattolico è fresco di sangue. Dalla bellicosa e grottesca sortita alla Baia dei Porci contro Fidel Castro, così mal concepita dalla Cia che Kennedy la riterrà poi «una trappola», il Presidente – temprato dal summit a Vienna in cui si sente trattato dal leader sovietico Kruscev «Come un ragazzino» – evolve in statista che afferma la superiorità morale della democrazia in una trionfale missione europea, e prevale nella crisi dei missili a Cuba 1962, quando il giovane Kissinger gli propone invece «Guerra nucleare tattica», avviando il disgelo con il Cremlino. Alla sua morte papa Paolo VI lo definirà «Un saggio».
A 20 anni dalla morte, nel 1983, il fratello senatore Ted Kennedy, il vero progressista della dinastia fondata dal magnate irlandese Joseph, astuto, avido, tenero con Hitler quando era ambasciatore a Londra, condensa la nostalgia «We miss you Jack, and always will», «Ci manchi Jack e per sempre». Lo conferma un sondaggio dell’Università di Virginia: Kennedy batte tutti i Presidenti del ’900 in una pagella da 1 a 10 con 7,6, davanti a Reagan 6,5, Clinton 6,7, Bush padre 4,9, Johnson 4,9, Carter 4,6, Nixon 3,7. L’America ama la Nuova Frontiera, persuasa che in suo nome Vietnam, crisi morale e politica, Watergate, si sarebbero evitati. Illusioni? Sì, ma anche le illusioni fanno Storia e Politica.
John Fitzgerald Kennedy era cresciuto nel privilegio, non subendo la supremazia del primogenito Joe junior, con cui fa a botte finché Joe non muore in guerra e le ambizioni del padre non cadono su di lui, «Jack», come in casa lo chiamano. Eroe nel Pacifico, salva l’equipaggio del suo PT 109 dai giapponesi, riceve ferite che piagano la già fragile colonna vertebrale, ma scherza «Mi son guadagnato le medaglie, facendomi spaccare in due la barca!».
A casa, come tanti giovani veterani, si stanca del conformismo dell’era Eisenhower, c’è aria di leader nuovi, JFK diventa il più giovane presidente eletto a 43 anni, ma Nixon era stato vicepresidente repubblicano a 39 anni. I soldi del padre lo eleggono prima deputato, poi senatore del Massachusetts. Con il sorriso da star di Hollywood, Kennedy sogna la vicepresidenza 1956, non la ottiene ed è una fortuna perché il candidato democratico Stevenson perde e gli apre la strada contro Nixon.
I rivali accusano Kennedy di contare troppo «sulla fortuna Kennedy», lui ride a cena: «Mio padre ha detto ok, i voti te li compro, ma vinci di misura, scordati il trionfo». E la vittoria 1960 arriva sul filo di lana, 118.574 voti di scarto. In due Stati chiave, Illinois e Texas, Kennedy passa grazie al sindaco di Chicago Daley (giusto per 8.858 voti), e al vicepresidente texano Johnson, (46.257 voti di scarto). Le voci di brogli sopravvivono fino a noi. Nel nuovo studio «The Kennedy half century» il saggista Larry Sabato nega che il celebre dibattito tv Nixon-Kennedy abbia «deciso le elezioni», anche se il repubblicano era emaciato per un intervento chirurgico e il democratico abbronzato per avere studiato al sole sul tetto dell’hotel, ma la stampa decise così e il mito prevale.
La presidenza Kennedy ha pochi, fondamentali, capitoli politici. Il taglio alle tasse, vigoroso, del 1962 (per il ceto medio 14%, per i ricchi 65%, giù dal 91%), una misura da repubblicani, per un democratico moderato. La guerra contro il capo del cartello siderurgico Blough, che aumenta il prezzo dell’acciaio di 6 dollari la tonnellata: «Mi hai fottuto? Ti fotto io» dice Kennedy, si appoggia ai sindacati, ordina di girare le commesse militari alle aziende indipendenti come Lukens, spedisce l’Fbi nelle acciaierie e fa revocare l’aumento, misura antimonopolio storica, Kennedy populista. Manovra sui diritti civili con prudenza, ma quando i governatori democratici del Sud cacciano gli studenti afroamericani dai colleges, lo sceriffo «Bull» Connor lancia cani lupo contro i non violenti e i terroristi fanno strage con le bombe, mobilita la Guardia Nazionale e avvia le riforme. Kennedy resterà sempre cauto, cercando di cancellare la Marcia a Washington di «I have a dream», «Mi danneggerà», mentre il fratello Bob definisce il braccio destro di King, Bayard Rustin, «un frocio».
Nel 1960 Kennedy è allarmato dal Laos con la guerra civile del Pathet Lao, non dal Vietnam. Anticomunista Doc, promette di «sopportare ogni peso in difesa della libertà» e non fa passi indietro. Ma l’invasione fallita a Cuba e l’esperienza da tenente lo animano contro lo Stato Maggiore. Quando i monaci buddisti si danno fuoco contro il governo cattolico di Diem in Sud Vietnam (non «contro la guerra») e la crudele signora Nu commenta «Bonzo al barbecue? Passategli fiammiferi e benzina», Kennedy manda come ambasciatore a Saigon il repubblicano Cabot Lodge, non si oppone al golpe contro Diem ma intuisce che la strategia è perdente. Poteva ritirarsi alla vigilia delle elezioni 1964? Improbabile, ma la richiesta che fa il giorno prima di morire, «revisione totale» dell’impegno americano e lo stupendo discorso del «disgelo» sulla «Pace nel mondo» all’American University (commosse perfino Kruscev), autorizzano a pensare che avrebbe potuto smarcarsi come Nixon nel 1973, senza l’escalation tragica di Johnson. Non grazie all’idealismo, grazie al pragmatismo copiato da Obama a Baghdad e Kabul. Non si vince? A casa.
Da Baia dei Porci e fallimento del vertice a Vienna, Kruscev deduce che Kennedy è un debole. Lo sfida spedendo i missili a Cuba nell’ottobre del 1962. Secondo il consigliere McGeorge Bundy solo al tempo della crisi delle isolette davanti Taiwan Quemoy e Matsu il mondo va così vicino alla tragedia atomica. I falchi, come il generale LeMay (il «dottor Stranamore» del film), provocano «Testate nucleari contro Mosca!», il presidente opta per il blocco navale. Quando le navi sovietiche Kimovsk e Gagarin arrivano alla linea fatale scortate da un sottomarino, la guerra è legata all’ordine, «Macchine indietro» che arriva in extremis dal Cremlino. Vince Kennedy, dà in cambio assicurazione che non invaderà l’Avana e che, mesi dopo, ritirerà missili dalla Turchia.
Con il programma spaziale, un uomo sulla Luna in 10 anni promette Kennedy, è il suo momento migliore, anche se in realtà il Presidente voleva andare su Marte con sbarco congiunto di astronauti Usa-Urss e la Nasa fatica a dissuaderlo! L’aria giusta per il Trattato contro gli esperimenti nucleari che finalmente, nel 1963, firmano Usa e Urss. Il look comprende i chinos chiari, il sigaro in bocca, gli occhiali Ray Ban e l’aria da skipper olimpico mentre il Presidente era un invalido, che spesso si reggeva a stento in piedi, con dosi massicce di novocaina spacciate dal dottore-stregone «Dr. Feelgood».
Ma il mito non sarebbe nato senza la moglie Jacqueline, icona del Novecento nei quadri di Warhol, tradita con tale foga («i 15 secondi più memorabili della mia vita» dirà l’attrice Angie Dickinson e brutalità (tre volte con amanti diverse la notte dell’Inaugurazione) che i kennedyani ritengono prova di vitalità, gli anti perversione morale. Jackie strega Kruscev con gli abiti Dior «Presidente non mi annoi con le statistiche a cena la prego», convoca gli artisti alla Casa Bianca, Pablo Casals, Ella Fitzgerald, Sinatra, Laurence Olivier, Bette Davis, Sidney Poitier, Tony Curtis. Quando il presidente cade a Dallas la vedova telefona allo storico Robertson, ancora con l’abito rosa intriso di sangue e cervello del marito: «Voglio funerali uguali a quelli di Lincoln», l’altro presidente martire. Al cimitero di Arlington, l’ex fattoria del generale sudista Lee, la fiamma votiva della tomba di JFK è allineata sull’asse ideale che lega Lincoln Memorial, Monumento a Washington, Campidoglio: particolare che l’architetto Warnecke studia in segreto per Jacqueline. I miti nascono così, e così, in segreto, vivono nella realtà. «Un liberal guarda al futuro non al passato, accoglie le idee nuove senza rigidità, si preoccupa del benessere della gente, salute, casa, scuola, lavoro, diritti civili e libertà, crede alla fine dei blocchi, dei sospetti, al cammino verso la pace… e per questo sono liberal» (JFK 4 novembre 1960).