Gay Talese, La Stampa 10/11/2013, 10 novembre 2013
LA STORIA CHE NON SCRISSI DI UNA CITTA’ SOTTO CHOC
Millenovecentosessantatré: a quel tempo ero un giornalista del New York Times. Generalmente, scrivevo di folle e persone. Mi occupavo, di solito, delle feste nel giorno di San Patrizio, delle rivolte a Harlem, di alcune risse - ce n’erano un sacco in quegli anni. Ero un cronista della carta stampata, non una sorta di romanziere come ce n’erano per il New York Herald Tribune.
Nel 1963 il Tribune era come una bella nave ancora a galla, ma in fase di inabissamento, con a bordo bravi giornalisti che ancora ballavano. Come Jimmy Breslin, Tom Wolfe e un sacco di altri. Io, in compenso, ero uno dei pochi del «Times» ad avere totale autonomia. Certo, non tanto quanto Breslin e Wolfe: voglio dire, il New York Times era davvero un giornale di reporter, un quotidiano di redattori, mentre il Tribune era un giornale di narratori. Ho voluto specificarlo in funzione di ciò che accadde dopo.
Wolfe e io ci vedevamo in giro, come giornalisti eravamo in competizione perché spesso dovevamo scrivere degli stessi argomenti. Quando il Presidente Kennedy fu assassinato, immediatamente ebbi la sensazione che quello sarebbe stato il mio incarico successivo. E così fu: l’editore mi chiese quale fosse la reazione delle persone a New York.
Avevo scritto della folla a Cape Canaveral, della spiaggia di Cocoa Beach e simili. Se Mickey Mantle avesse tentato di superare il record di Babe Ruth a baseball, avrei scritto delle reazioni della folla. Coprii le rivolte nel 1964; mi occupai della marcia di Selma e delle lotte per i diritti civili.
Tornando al ’63, sapevo che avrei trattato la reazione popolare all’assassinio. Il direttore mi disse di andare e studiare le reazioni delle persone. Così iniziai a camminare per le strade, semplicemente.
Il New York Times era al 229 West della Quarantatreesima strada a quel tempo: era tra la Ottava e Times Square. «Bene, adesso vado in metropolitana e scenderò a Wall Street. Magari passerò per Little Italy o andrò a Chinatown, magari prenderò un’altra metro per arrivare nel West Side. Forse mi fermerò al Garment Center, nella Trentaquattresima strada, se riesco poi andrò fino a Harlem, nella Centoventicinquesima».
Il mio piano era quello. Mi fermai quando vidi Tom Wolfe. Come collega, era un buon giornalista, lo ammiravo. Lo vidi per strada: stava arrivando dalla Quarantesima, dagli uffici del Tribune. Gli urlai: «Ehi, Tom, cosa stai facendo, ti stai occupando delle reazioni della gente anche tu?».
Mi rispose di sì. Suggerii di prendere un taxi insieme: era troppo costoso salirci da solo, soprattutto per andare in centro. Arrivati, camminammo da Canal Street a quella che sarebbe poi diventata Little Italy, o forse verso Chinatown, o forse da qualche altra parte lì in mezzo a cui nessuno ha mai dato un nome di quartiere identitario. Sentivo dalle autoradio la notizia del dramma avvenuto a Dallas: ma non vedevo piangere nessuno, nessuno gridava a gran voce: «Oh mio Dio, cosa faremo adesso?»; o «Che cosa terribile». Nessuno.
Io? No, non fui particolarmente sconvolto dalla notizia. Era solo lavoro. È la cosa peggiore per noi giornalisti: non so se sia ancora così, ma posso raccontarvi l’esperienza della mia generazione. Wolfe e io abbiamo circa la stessa età, entrambi cresciuti negli anni Cinquanta e Sessanta, quando da ogni parte c’erano storie interessanti. Si poteva tranquillamente evitare di provare pena per un ragazzo privilegiato e ricco come JFK. Sapevo che aveva un fratello maggiore morto in guerra, e ne rimasi colpito, eravamo circa della stessa età.
Ricordo che con John Kennedy in televisione ero molto orgoglioso di essere americano. Era meraviglioso in quelle conferenze stampa, sapeva parlare benissimo. Era un giovane uomo di bell’aspetto, ricco, con una moglie affascinante, era capace di riemergere dalla crisi dei missili di Cuba e dalla Guerra fredda, pareva essere in cima al mondo. Insomma, come ci si poteva sentire davvero dispiaciuti per lui?
Ma non dovevo parlare di me, delle mie impressioni. Quello che intendevo fare era scrivere di ciò che potevo vedere. Così andai per strada, non avevo neppure bisogno di chiedermi come si stesse muovendo Tom Wolfe dal momento che era con me. Camminammo insieme, ogni tanto ascoltavamo la radio. Ma per strada non c’era niente da ascoltare. Mi ricordo che ci spostammo verso il Diamond District e sulla Cinquantesima Ovest; raggiungemmo Yorkville in metropolitana, facemmo un ulteriore giro e, alla fine, tornammo a Times Square per lavorare. Non vidi niente. Pensai che tutto quel silenzio fosse interessante. Era come se la vita di ogni giorno, la routine fosse in grado dominare le emozioni e le reazioni delle persone.
Io tornai al mio giornale, Tom al suo. Ricordo quello che dissi al direttore, il signor Adams: «Sembra che non ci sia alcun segno di angoscia, là fuori. Non ho visto gente piangere per strada e non ho sentito nulla di significativo. Ma posso scrivere di questo, se vuoi».
Ci sono casi in cui la storia che hai tra le mani non è quella a cui avevi pensato. Immaginavo che avrei visto persone reagire come quando l’esercito tedesco entrò a Parigi nel 1940, o anche solo qualche incidente d’auto. La gente reagisce con orrore, con tristezza o con lacrime: ma non ci fu niente di tutto questo. Feci alcune supposizioni, la più credibile fu quella dello choc.
Camminai su e giù per i corridoi della redazione fino alle cinque del pomeriggio: dovevo scrivere il mio articolo entro le sette. «Posso scrivere di questa non-reazione», suggerii nuovamente all’editore. Mi rispose: «Non serve, ho altre storie». Non aveva bisogno di me, non voleva una storia al contrario. La mia sarebbe stata una non-storia, un’assenza di avvenimenti.