Domenico Quirico, La Stampa 10/11/2013, 10 novembre 2013
“QUELLA MAGLIETTA DEL MILAN CHE MI SALVÒ LA VITA”
Gli eserciti delle guerre che ho attraversato, dove mi sono sporcato le scarpe nel disordine della vita, non hanno divise: in Somalia Mali Libia Congo, ribelli, guerriglieri, fanatici, banditi non devono distinguersi, devono semmai confondersi. A dividerli, quelli che hanno la forza e la possibilità di sopravvivere, e gli altri, i poveri altri, bastano il kalashnikov, il machete, la pistola. Non c’è colore in quell’eterno presente che è l’inferno. Eppure, anche lì, la guerra ha il suo lato teatrale. Con procellosa contraddizione i moderni lanzichenecchi, i rivoluzionari in nome di Allah amano indossare le maglie delle squadre di calcio europee. Ecco: un motivo in più per cui tutte le cose umane danno una mano alla ragione e l’altra all’assurdo. Questi tribolanti da ogni parte, messi a far siepe sotto l’ammanto di una storia scellerata, nascondono un cuore tifoso, sono una Curva universale. Sono pronti a morire per Dio o per un signore della guerra, odiano l’Occidente, sanno che con il destino l’impazienza non serve, ma vanno in battaglia o in strada con devozione di vestali portandosi sulla schiena le sillabe di Ibrahimovic, Messi o Kaka.
Tripoli, l’ultimo giorno della gazzarra e del mangia mangia gheddafiano, già la sua caserma è rovina, sottosopra come un campo lavorato: un gruppo di miliziani e mercenari del dittatore cadente mi afferra e mi trascina nel suo covo. Sotto le mimetiche lerce, con addosso l’usura della sconfitta ormai vicina, spuntano, metafisiche, irridenti, maglie del Chelsea, dell’Arsenal, del Real.
Attorno al pick-up in cui hanno appena sospeso la mia esecuzione, tra gli altri che perfidi sudano fiele, serpeggia qua e là un ragazzo dalla pelle più scura, un mercenario della legione africana del Colonnello. Ha seguito la sequenza dell’uccisione del mio autista, il viso ricamato con tutti i punti interrogativi della curiosità. Sotto il giubbotto che gli serve per tenere i caricatori del mitra vedo una maglia che conosco, bianca con le strisce rosse e nere, la maglia della mia squadra, il Milan. In quella traversata del male è come un segno di casa, un appello a sperare. Per tentare di comunicare con quelli che possono essere, ancora, i miei assassini, ho dunque un oggetto comune, il simbolo di una passione che, incredibilmente, ci affratella. Gli faccio un segno, lo tento: «Hai una bella maglia...».
Il ragazzo mi guarda e poi, svelto, inizia a spogliarsi della cartucciera, si leva la maglia e me la porge: «Ti piace? E’ tua…». Allo stadio embrionale l’estremo è nascosto in ognuno di noi.
Presto non potremo, noi occidentali, raccontare più molte delle guerre del mondo, ci sarà vietato attraversare spazi interi, incrudeliti del pianeta: è l’era dei fanatismi, delle fedi assolute fino all’omicidio, del jihad senza speranza. Siamo il Nemico, disprezzato e temuto nello stesso tempo, l’Altro da uccidere e a cui non si ha più voglia di raccontare chi si è, cosa si vuole, si sogna, l’ideologia per cui ci si batte. Fino alla morte. Non più la lotta del preferibile contro il detestabile ma del Bene contro il Male. Il solo segno di comunicazione con i fantasmi e i fantocci di queste rozze e balorde dogmatiche sembra esser rimasto il football, la mediocre religione del gol della vittoria, di un pallone.
Colpa, ancora una volta, di Al Jazera, il Grande fratello delle rivoluzioni e dei fanatismi arabi, che regala ai popoli slogan ribelli, bugie: e le partite dei campionati europei più importati, Inghilterra Spagna Italia. Dalla Mauritania alla Siria un mondo che vive con la televisione perennemente accesa conosce tutti gli eroi e le comparse degli stadi europei.
Bamako, quest’anno: sento raffiche di angoscia, la guerra è a due passi, la metà del Mali è nelle mani di Al Qaida, si aspettano i francesi per superare il Niger, riconquistare Timbuctu, Gao, Kidal. Qui hanno dimenticato i nomi delle cose, ma non di Messi e di Ronaldo. Attorno alla grande moschea nel mercato vedo solo occhi acidi e granulosi, gli stranieri sono scomparsi, la miseria li smunge da anni peggio dell’anticristo. Solo le bancarelle che vendono maglie di calciatori fanno affari. Tra le altre fitte di nomi noti di oggi e di ieri, anche la maglia del terzino del Milan Abate. Forse è difficile trovarla persino in Italia.
Ancora in Mali, durante la guerra, in un villaggio di prima linea, casupole sgangherate e pittoresche , un luogo dove nascono e muoiono un sole di brace e una luna smorta sopra un languido deserto. Il cannone romba vicino, i combattenti sembrano i cospiratori di Conrad cupi, il viso cenerognolo e misterioso. È mercoledì, giorno di coppe, in tutto il mondo. Un popolo di soldati e miliziani si riunisce in religioso silenzio, deposto il kalashnikov, attorno a uno dei pochi televisori, sistemato nella strada principale: per seguire non le notizie della guerra, ma Barcellona-Milan. Son l’unico bianco, e sono l’unico che tifa per la squadra italiana. Ogni gol del Barcellona mette quel popolo tifoso come un formicaio in scompiglio.
Sì, forse il calcio porta anche le altre ebbrezze che ha la vita altrove, il tifo come l’odio è un legame altrettanto forte: esige obbedienza. Il Barcellona è la squadra che tutto questo mondo di afflitti adora, anche chi non sa che cosa siano la Spagna, il Camp Nou, la cantera delle meraviglie, tutto questo catechismo di stereotipi e di astrazioni che nutrono il tifo? Perché? Perché vince… mi hanno risposto. In fondo, in questi luoghi di afflizione e di delusione, questa è una ideologia rivoluzionaria.
Ho visto le maglie del Barcellona anche a Dadaab, nel Kenya del Nord, la più grande città di rifugiati del mondo, assurta a simbolo della miseria angariata. La terra lì è gialla e dura come una crosta che se lo mangia il verde e ti fa venire l’arsura solo a vederla. Una vita senza libertà, come una malattia, come perdere la salute, un po’ più in là dell’ultima capanna di fango e di sacchi di plastica la normalità sparisce nel buio. A fianco, la città con l’aria condizionata e i televisori al plasma, e il filo spinato, dei soccorritori, degli umanitari da 5000 dollari al mese, che hanno per i rifugiati l’affetto per un animale nella gabbia del quale si entra guardinghi. Gli uni e gli altri hanno un solo legame, il football e i suoi eroi. Qui la Premier League vien subito dopo la speranza del Paradiso.
In Siria, ad Aleppo ho visto rivoluzionari adolescenti con le maglie del calcio ramingare verso la prima linea, la stanchezza dell’anima negli occhi. Sulle macerie dei palazzi del quartiere di Salaheddin regnava un silenzio splendido e struggente, per un attimo ne ho visti alcuni uccisi, e quelle maglie eran l’unica chiazza di colore tra le macerie: soldati, ragazzi, carne viva. Un gruppo di combattenti di Al Qaida, le funebri galabie nere, li guardava con l’assurdo sussiego dei massacratori.
Non so se i calciatori hanno la consapevolezza di esser gli ultimi, nel mondo, a possedere il segreto di una magia straordinaria, commuovere, donare emozioni che cacciano ad ognuno il diavolo in corpo, ovunque, anche laddove l’uomo lotta per uccidere l’altro e spesso non gli è rimasta alcuna fede se non la sopravvivenza. Dove ti chiedi: può mai accendersi un sorriso in un luogo simile? È il gusto di cenere di una gioventù sciupata che si lascia sbigottire, come i loro coetanei dall’altra parte del mare, da un gol una veronica una parata gagliarda, gente che sa fiutare la gioia e la speranza anche nelle regioni più sterili. Ma il calcio sembra una di quelle parole che pronunciate con apparente indifferenza acquista a un tratto come un senso cabalistico.
Sono stato prigioniero in una città che si chiama Al Qusser, i miei carcerieri avevano catturato anche un soldato nemico, gli avevano preso l’uniforme, gli scarponi, il giubbotto antiproiettile. L’avevano rivestito con una maglia stracciata del Real Madrid. Aveva tutto grande, la testa riccia, la fronte, il naso carnoso, i palmi delle mani. Lo usavano come schiavo: puliva accudiva le pecore ogni tanto lo picchiavano. «Lo vedi quello? Quando non ci servirà più lo sgozzeremo» mi aveva annunciato, con pedagogia malvagia, il capo dei miei carcerieri con gli occhi che gli si ficcavano addosso come chiodi.
Mi girava attorno, questo condannato a morte, lo sguardo mesto di chi si è lasciato già dietro la vita. «Sei italiano tu… Conosco una cosa del tuo Paese, la Juventus. Avevo la maglia quando ero laggiù, a casa mia, in pace…».