Martino Cervo, Libero 9/11/2013, 9 novembre 2013
LA GERMANIA CI DERUBA ANCORA RECORD STORICO DEL SURPLUS
«Germany makes, Euroland takes! ». Ovvero, in una traduzione che perde la rima: «La Germania produce, Eurolandia compra». Così ieri Holger Zschäpitz, firma del tedesco Welt sintetizzava il dato abbastanza clamoroso del nuovo record assoluto del surplus tedesco,balzato a 20,4 miliardi di euro.
Come rilevato più volte da Libero, il dato economico che sintetizza la differenza tra ricavi da esportazione e spese per importazioni non è solo un indice della struttura economica di un Paese, ma un potente fattore di (dis)equilibrio per le aree attigue.Non a caso, i trattati dell’Europa prevedono che questo valore non ecceda, rapportato al Pil, il 6%. Da almeno nove anni la percentuale tedesca (sono dati col bollino della Commissione Ue) è stabilmente sopra il 6%, e la previsione di crescita (7% sia nel 2012 sia nel 2013) è ulteriormente certificata dal dato comunicato ieri. Difficile non notare come, dall’introduzione dell’euro, il surplus tedesco sia schizzato verso l’alto fino al record storico di ieri, che supera i valori pre-crisi del 2008.
Il dibattito sugli effetti dannosi per la periferia dell’euroarea (Italia compresa) di questo dato è stato riacceso dall’irrituale nota del Tesoro americano che, nel report al Congresso del 30 ottobre scorso, ha accusato senza mezzi termini la Germania di esportare deflazione nel resto dell’Europa proprio a causa della politica economica sbilanciata sull’export. Secondo questo punto di vista, tali scelte riducono la domanda interna e le importazioni (che a sorpresa in effetti scendono di quasi il 2% mese su mese), e dunque danneggiano i Paesi - come l’Italia - che vedono diminuire le loro esportazioni verso la Germania. La dinamica è già avviata a causa dell’euro forte, che danneggia il nostro export molto più di quello di Berlino, che risente meno per ragioni strutturali delle oscillazioni del cambio.
Così, all’indomani della decisione di Draghi di abbattere il tasso del denaro al minimo storico (scelta criticata dalla stampa tedesca, ma non dalla Bundesbank né dalle autorità politiche), la cifra record ravviva le argomentazioni di chi vede in Berlino una ineliminabile minaccia alla stabilità della stessa Europa, di cui la Germania rimane pur sempre un modello produttivo e di crescita. Modello che lo stesso Draghi ha difeso, visto che è ammesso che il surplus è «alto» spiegando che non si può pensare che la crescita passi dall’indebolimento dei Paesi più forti. E se è vero che fin qui il surplus è cresciuto soprattutto grazie all’aumento dell’export fuori dall’area Ue, l’ultimo balzo - come spiega il Financial Times- vede un +5,4% proprio delle esportazioni nei Paesi dell’euro - zona. La tesi tedesca ribatte all’attacco americano - rinforzato dall’analisi del Fondo monetario, sovrapponibile di fatto a quella del Tesoro Usa -che non è affatto provato che il sistema-Germania danneggi i vicini. «È il contrario », spiegava ieri all’Handelsblatt il potente capo della Federazione dei costruttori di auto (VDA) Matthias Wissmann: «La Germania è il motore economico dell’Europa». Stesso concetto ribadito da Stefan Schilbe, capo economista di HSBC: «Con un po’ di ritardo, le industrie tedesche aumenteranno la loro capacità produttiva, e questo aiuterà i nostri partner».
Resta il fatto che, a parte la violazione dei parametri Ue che nessuno sembra intenzionato a contestare a Berlino, la dimensione gigantesca del surplus crea uno squilibrio al cuore dell’eurozona che perfino il placido Barroso ha sottolineato a suo modo, parlando di «compiti a casa» anche per i professori di austerity tedeschi.
Può esserci una via d’uscita? Come ripete da anni Draghi, se c’è è soltanto politica. Per i poteri che ha, la Bce si inventa di tutto per non entrare in collisione con Berlino e comprare tempo. Un possibile alleato del «club Med» sono i socialisti tedeschi, alleati «obbligati» del nuovo governo Merkel, decisi ad aumentare la domanda interna. Cosa che, con eterogenesi dei fini, potrebbe tornare buona anche a noi. Ma è una speranza decisamente flebile.