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 2013  novembre 09 Sabato calendario

LA MIA BOLOGNA IN VIA DEL BABUINO HO RICREATO LE STANZE DELL’INFANZIA


Ognuno di noi «ricorda la casa in cui è cresciuto, che l’abbia amata o meno. Quella della mia prima infanzia, a via San Vitale a Bologna, era un appartamento vecchio, buio e angusto, ma siccome è lì che la mia famiglia ha vissuto sia tutto il periodo prebellico che l’immediato dopoguerra, nella mia memoria ha continuato a essere una sorta di archetipo».
Pupi Avati, che racconta la sua vecchia casa nel bel libro autobiografico La grande invenzione (ed. Rizzoli), ha cercato di ricreare quell’atmosfera anche nel grande appartamento romano di via del Babuino, dove vive insieme a Nicola, sua moglie da quasi mezzo secolo, elegante e riservatissima. «Abbiamo cercato di rifare la casa bolognese della nostra infanzia, perché ci dà quell’idea di continuità che io cerco in tutte le cose che faccio. Mi sembra più rassicurante mangiare in un servizio di piatti che altri hanno già usato infinite volte per delle cene. Sedermi sulle poltrone che hanno accolto i miei genitori e poi i miei figli, gli amici che non ci sono più. Il presente invecchia in un istante, non ho mai sentito la necessità delle cose nuove».
Nel salotto della casa romana il tavolo basso è nascosto dal tappeto indiano riportato da un viaggio, sulle pareti qualche quadro ereditato dal nonno antiquario. «Ma quelli di maggior pregio se ne sono andati tanti anni fa, quando abbandonai il posto di direttore vendite in una importate azienda di surgelati e mi misi in testa di fare il cinema. Con i quadri riuscimmo a pagare le bollette della luce e del gas e a scongiurare le minacce di sfratto e pignoramento». I corridoi rigurgitano di libri. Pupi sfiora l’edizione dei Meridiani di Baudelaire. «Me lo regalò Pasolini quando scrivevo per lui la sceneggiatura di Le 120 giornate di Sodoma di De Sade. Andai a trovarlo nella sua casa all’Eur. A un certo punto lui prende questo libro, lo apre e con la penna stilografica comincia a sottolineare alcuni versi con segnacci che a me parevano rasoiate. Mi suggerì di interpolare il racconto della prima narratrice con i versi del poeta». Ricorda di aver visto Pasolini, il giorno prima della sua morte, dalla finestra di questa casa: «Passava sull’altro lato della strada, un po’ fighetto, com’era lui, molto in forma, molto “Pasolini”, con quel suo fisico asciutto da calciatore. Non lo chiamai». Ora il volto di Pasolini lo guarda da una piccola foto appesa in mezzo a una foresta di altri volti, nella strombatura della finestra in camera da letto. Parenti e amici che non ci sono più. Tognazzi e Monicelli, Fellini e la Masina, Pontecorvo e Nick Novecento, l’indimenticabile interprete di «Una gita scolastica» e «Festa di laurea» , stroncato giovanissimo da un infarto. Con loro il regista intreccia brumose conversazioni nelle ore incerte dell’alba. La zia Amabile, bellissima, che tuttavia fu tradita dal marito con una cameriera dell’albergo, la prima notte di nozze, gli ha sussurrato la trama de «Il cuore grande delle ragazze».
Un altro dei suoi film pieni di poesia, «Storia di ragazze e di ragazzi», scaturisce dall’elefante d’argento che fu donato ai genitori il giorno del matrimonio e che Pupi conserva nello studio. Me lo porge: «Un elefante d’argento costruito senza l’argento», recita, come all’inizio della pellicola la bambina che assiste alla creazione del soprammobile in una piccola fabbrica.
«Era il tipico regalo di nozze durante il fascismo. Ricordava le colonie africane. Siccome tutto l’argento era stato donato alla patria per costruire i cannoni, gli elefanti erano modellati in gesso e poi immersi in un bagno che li rendeva argentati. Per me è il simbolo della casa, della continuità, spero che anche i miei figli lo conservino con cura».
Nello studio, in mezzo alla collezione di clarinetti, spicca una foto di Pupi con un Lucio Dalla pieno di capelli neri. Sotto, a penna, la data: 24 dicembre 1960, Barcellona. Avevano vinto un premio europeo con la Doctor Dixie Jazz Band. All’epoca Pupi coltivava ancora un sogno da jazzista. Risale a quel viaggio l’aneddoto che circolava da tempo immemorabile, secondo il quale Pupi avrebbe attirato con l’inganno Lucio su una delle torri della Sagrada Família con lo scopo di buttarlo di sotto.
«Sulla torre c’eravamo saliti davvero e la voglia di eliminarlo era autentica. Perché lui aveva il talento, io solo la passione. Dopo un po’ abbandonai il jazz».
Lauretta Colonnelli

lcolonnelli@corriere.it