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 2013  novembre 09 Sabato calendario

BASSOLINO E QUEI PENSIERI SULLA MORTE «HO PASSATO MOMENTI MOLTO BRUTTI»


Lo confessa a modo suo, di aver corteggiato la morte: «Ho passato momenti molto brutti. E a volte mi sono lasciato andare a cose... che non si dovevano fare. Su, in montagna». Pausa. La voce di Bassolino s’incaglia in pensieri difficili da nominare per chi, prima, non aveva mai nemmeno immaginato che il personale fosse politico: «Andavo su senza guida e senza cautela, sui sentieri più pericolosi, con neve e ghiaccio...». Con l’idea di farla finita? «...non la dica così. Mi avventuravo a fare cose che tre anni prima non avrei mai fatto, sì. Andavo, andavo, e in certi momenti pensavo: potrei anche restare a riposare quassù».
Lassù, sulle ferrate delle Dolomiti. Che scalava per cercare tregua, quando qui a Napoli era quasi per tutti un appestato: le montagne come la vita, salita e discesa, paradiso e inferno, prima «pate ‘e Napule», e poi «Totonno ‘o mariuolo». «Scendere è più difficile, sa?». Adesso, che dall’inferno è risalito dopo anni di damnatio memoriae, rimesso all’onore della città «con cui ho avuto un rapporto carnale» da una sentenza che lo assolve per lo scandalo dei rifiuti campani che l’aveva spazzato via dal governo della Regione, Antonio Bassolino propone di sé un Totonno nuovo, chissà quanto vero: non più grigio apparatchiki comunista, non più sindaco popolare e popolano, non più governatore esecrato e detestato. «Molti mi sono stati ingrati ma ho vinto il rancore». Sassolini nelle scarpe? «Direi piuttosto faraglioni», sorride Simona Brandolini, cronista politica del Corriere del Mezzogiorno. «I bassoliniani come ceto? In Parlamento ce n’è parecchi di quelli che rapidamente l’hanno rinnegato, gente con cui non andrei a cena», dice il politologo Mauro Calise, che della stagione di Bassolino fu il Dottor Sottile. «Gli chiedano scusa», si sbilancia D’Alema.
Lo scandalo resta, intendiamoci, assieme alle clientele d’una città e una regione nelle quali l’immondizia è sempre lì, velenosa padrona sullo sfondo. Ma sono responsabilità politiche. «E quelle me le sono sempre accollate», rumina Totonno. In realtà quasi da solo. «Le Dolomiti di Napoli», il suo bizzarro libro appena uscito - dove davvero il personale diventa politico e la politica un fatto personale (il mondo nuovo visto con gli occhi dei nipotini, i gatti di casa migliori degli umani, l’ostensione della propria malattia da stress) - s’incrocia con la sentenza. Questo incrocio temporale diventa morale; e, nella Napoli desolata di Giggino de Magistris, evento: l’unico. Il ritorno in campo è nelle cose. Da sindaco? «Ci pensa, eccome», sospira Stefano Caldoro, suo successore a Palazzo Santa Lucia, uno dei pochi non maramaldi durante i giorni cupi: «Ci siamo sempre rispettati. I sondaggi però dicono che novanta napoletani su cento non lo rivogliono e i giovani men che meno». C’è del vero ma anche dello scaramantico nell’analisi del governatore pidiellino. Perché i sondaggi sono precedenti all’assoluzione e nella città che le cronache descrivono “spezzata” da progetti velleitari come il Lungomare Liberato - mezzo chiuso, mezzo riaperto e consegnato ad ambulanti e bancarelle - tutto può succedere.
Lina Lucci, gran capo della Cisl campana, la mette giù con franchezza: «De Magistris ci ha fatto capire. Pensavamo non ci potesse essere di peggio. Beh, de Magistris è il peggio. Cose buone, da sindaco, Bassolino le aveva fatte: tutt’altro sono stati gli anni alla Regione. Ma il dramma è: possibile che Napoli non abbia classe dirigente? Dobbiamo rimpiangere chi abbiamo perso?».
È il vecchio, suggestivo refrain del «si stava meglio quando si stava peggio». Clemente Mastella, che partecipò al disastro della Regione bassoliniana, si lecca i baffi: «Lui sindaco a Napoli e io, magari, a Benevento». Poi rispolvera una categoria straniante ma sempre comoda: «Ci fu un assalto contro di noi, mi riferirono certe manovre dei servizi segreti... Ora possiamo tornare più forti ma spero che, dicendolo, non ci impallinino di nuovo!». Lui, Totonno, schiva la domanda diretta: «Sindaco? Voglio solo essere utile a Napoli, certo il fatto che se ne parli avendo un sindaco in carica da appena due anni e mezzo è segno che le cose vanno male». Il suo (un tempo) fedelissimo Andrea Cozzolino, dice qualcosa di più: «Ci vuole un progetto nuovo, non è il ‘93: ma se la città ce lo chiedesse...» e con quel plurale indica disponibilità a un nuovo abbraccio.
Alla presentazione del libro, al San Carlo, erano stipati in seicento: vecchi e nuovi, con Cozzolino e Claudio Velardi, il giovane Enzo Amendola e il giovanissimo Venanzio Carpentieri di lì a poco neo-segretario provinciale (un ragazzo dello staff del sindaco filmava circospetto, dicono che la psicosi cominci a insinuarsi nei corridoi municipali di Palazzo San Giacomo). All’hotel Mediterraneo, presentando un libro di due giornalisti contro de Magistris, Totonno ha raccolto applausi dalla destra vecchia e nuova. Amedeo Laboccetta, postfascista enfatico, ruggisce: «Correrà da sindaco e io contro di lui! Basta che mandiamo via questo di adesso, un pericolo pubblico». Gianni Lettieri, già candidato pdl eppure da sempre bassoliniano trasversale, flauta: «Antonio non vuole più stare in panchina e ha ancora rapporti importanti in città». Varie (e per lo più improbabili) architetture politiche sono in corso di redazione per abbattere il vituperato Giggino, ferito da colpo auto-inflitto sin dalle foto della prima sera di baldoria da sindaco, con la surreale bandana arancione e gli occhietti da Maradona al mondiale del ‘94. Vent’anni dopo, i napoletani si dispongono a riaccogliere il loro Edmond Dantès. Con cinismo, fin nel ventre della città. Rodolfo, garagista sotto Palazzo San Giacomo, ha già votato nel suo foro interiore: «Giggino pare una creatura che ha preso troppi scussettoni, ceffoni. Totonno è un filibustiere, ma sa venderti qualunque merce». Il Rinascimento partenopeo che fu, glielo piglierebbero a sassate. Oggi basta essere sopravvissuti, a lui e a loro.
Goffredo Buccini