Simonetta Fiori, la Repubblica 9/11/2013, 9 novembre 2013
IL VERO FURORE
È considerato uno dei più bei romanzi del Novecento, ma in Italia ancora non lo conosciamo. Per settant’anni abbiamo letto un altro libro pensando che si trattasse di Furore, il capolavoro di John Steinbeck, l’opera che gli valse un Nobel e un mito lungo un paio di generazioni, oltre che una famosa canzone di Springsteen. L’odissea di Tom Joad e famiglia, ovvero l’esodo biblico dei contadini dell’Oklahoma rimasti senza terra e senza casa nell’America della Grande Depressione. Finora l’abbiamo letto in una versione tagliata che ne stravolge lo spirito e lo stile. Una riscrittura segnata da alterazioni, rimaneggiamenti e diluizioni che fa dire all’attuale traduttore Sergio Claudio Perroni: «Nella vecchia traduzione di Coardi non c’è traccia dell’originale di Steinbeck». Un epitaffio, che però appare sorretto da prove inoppugnabili.
Da oggi, dunque, chi non ha letto The Grapes of Wrath in lingua originale potrà ritrovarne la forza espressiva nella nuova edizione Bompiani curata da Luigi Sampietro, con la bella traduzione di Perroni che ha lavorato sui diversi registri del testo reintegrandone le pagine tagliate. Ma resta il caso clamoroso di una censura culturale lunga sette decenni, cominciata con la prima uscita di Furore in Italia, nel gennaio del 1940, XVIII anno dell’era fascista, e interrotta solo oggi. È anche la storia paradossale d’un testo che fin da principio fu accolto in modo ambivalente. Il suo debutto italiano contribuì ad alimentare quel mito americano che strappava un’intera generazione dalla palude autarchica voluta Mussolini. Il quale però acconsentì alla prima edizione Bompiani di Furore perché funzionale alla battaglia contro le «demoplutocrazie » borghesi. Finché nel luglio del 1942 il ministero della Cultura Popolare respinse una nuova ristampa dell’opera, «essendo il contenuto incompatibile con le nostre idee». Anche i censori in camicia nera erano arrivati a percepirne la forza d’urto. E tutto questo nonostante la cloroformia sparsa dal traduttore Coardi.
E qui arriva l’aspetto clamoroso del caso Furore. Proprio quell’edizione italiana che allora fece scalpore, indignando Prezzolini per il linguaggio scurrile o facendo innamorare Vittorini per il «mistero dell’uomo», era di fatto molto lontana dall’originale di Steinbeck. E tale è rimasta fino a oggi. Una versione, quella resa da Coardi, che non solo annacqua l’incisività del parlato in un giro di frase tipico della prosa d’arte, ma arriva a sopprimerne i contenuti più dirompenti. Un intervento censorio di carattere moralistico più che direttamente politico, anche se poi l’addomesticamento complessivo risponde al conformismo dell’epoca. «I tagli», ci dice Perroni, «sono dettati da remore cattoliche nei confronti della spiritualità anomala di Steinbeck. Non è un caso che la figura più manipolata sia quella di Jim Casy, le cui iniziali sono le stesse di Jesus Christ. È una splendida figura di profeta malgré soi che esprime un mix tra animismo e panteismo, che poi è lo spirito alla base di tutto il romanzo». Anche i riferimenti sconci vengono sforbiciati, ma solo se accostati a una figura religiosa. Nella prosa prudente di Coardi sparisce il sesso del predicatore («Pa’ sarà contento di vederti. Diceva sempre che avevi l’uccello troppo lungo per fare il predicatore» si traduce in un più pudico «Il babbo vi vedrà volentieri»). E quando Jim Casy dialoga con se stesso, «the screwing» («scopate») diventa «una malattia ». «Tra l’altro», interviene Perroni, «nell’originale ci sono pochissime parolacce. E l’accusa di romanzo osceno può trovare un appiglio quasi esclusivamente nell’immagine finale della ragazza che allatta il moribondo». A un certo punto salta anche una pagina sugli effetti sciagurati prodotti da una lunga carcerazione: non può essere letta come la censura di un regime che in galera ci spediva i dissenzienti? «Può essere. Ma qui come altrove il taglio è ispirato da una sorta di ritorno all’ordine, principio informatore di tutto il lavoro di traduzione. Come se, più in generale, si volesse edulcorare lo spirito di ribellione ai soprusi».
I taccuini di Perroni sono pieni di annotazioni critiche. Tagli cospicui senza motivo apparente. Ribaltamenti di senso o incomprensione del testo. Riscritture con assurde dilatazioni, «rese ancora più incomprensibili dal fatto che i tagli dell’originale avrebbero dovuto ridurre la foliazione». Libere interpretazioni con sistematica distruzione del timbro biblico- retorico («Sarete ladri se tenterete di restare, sarete assassini se ucciderete per restare» diventa un elaborato «Non capite che, se v’ostinate a restare, contravvenite alla legge sulla proprietà, e che se fate uso delle armi siete dei delinquenti?»). In questo pasticcio di “straduzione” è difficile trovare una ratio, se non un dubbio espresso da Anna Tagliavini in un documentato saggio su Furore: forse Coardi – che probabilmente è solo uno pseudonimo – non capiva bene l’inglese? Non tutti tra gli americanisti di quella generazione avevano dimestichezza con la lingua. Ma l’insipienza non basta a spiegare il taglio più clamoroso, la pagina dell’ultimo dialogo con “ Ma’ ” che ha fatto di Tom Joad un mito dell’antagonismo («Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare, io sarò là. Dove c’è uno sbirro che picchia, io sarò là...»). Zac. Sparito. Eppure Bruce Spreengsteen ci avrebbe costruito sopra The ghost of Tom Joad («Now Tom said “Mom, wherever there’s a cop beatin’a guy//... Look for me mom I’ll be there”...»). Ma noi non ce ne siamo mai accorti.