Michele Brambilla, TuttoLibri, La Stampa 9/11/2013, 9 novembre 2013
FABIO, IL VOLO DEL SUCCESSO
C’è un intruso al comando della classifica dei libri più venduti: è Fabio Volo. Nei suoi confronti non esistono le mezze misure: o lo amano, o lo disprezzano. Causa ed effetto di amore e disprezzo stanno appunto in quel fatto lì: nel fatto che è al comando della classifica dei libri più venduti. L’amore (del pubblico) è la causa del successo, mentre il disprezzo ne è l’effetto: ai critici e agli scrittori di minor fortuna - vale a dire quasi tutti gli scrittori - uno che vende sei milioni e mezzo di copie provoca il mal di fegato. Quindi, rosicano.
Più che di disprezzo, insomma, bisognerebbe parlare di invidia. Come negare che Fabio Volo genera invidia? La genera in ciascuno di noi. Tutto quello che fa, gli riesce alla grande. Il conduttore radiofonico. Il conduttore televisivo. L’attore. Il doppiatore. Lo sceneggiatore. E naturalmente lo scrittore. Quel che Fabio Volo tocca, diventa oro. Paradossalmente, l’unica attività che gli è morta in culla è stata la sua prima passione: quella del cantante. Per il resto, una simil bravura non può essere spiegata con il solo lavoro, per tanto che sia: qui va tirato in ballo il talento, dono che dall’Alto cade piuttosto disordinatamente. Quando glielo dico, lui eccepisce: «Tutto quello che ho avuto l’ho conquistato lavorando. Chi pensa che il talento sia una cosa che viene data a qualcuno sì e a qualcuno no, ha capito male. Tutti ricevono dei talenti: la forza delle persone sta nel portare alla luce il proprio». Ed è certamente vero. Ma c’è talento e talento, e quello di Fabio Volo ricorda quello di Maradona: il quale, con il fisico e la testa che aveva, non avrebbe neanche dovuto giocare a pallone, e invece. Qui, a proposito di talenti, si potrebbe discutere sul senso di equità del loro Distributore, ma non ci permettiamo.
Comunque. Il nuovo libro di Fabio Volo, La strada verso casa, sta ripetendo o forse anche superando le vendite dei precedenti, e c’è chi storce il naso. Dicono che i libri di Volo sono «di intrattenimento» e i suoi lettori «di serie B».
Chiedo a Fabio Volo se queste definizioni lo offendono, e lui si rivela per essere tutt’altro che permaloso: «Io spero sempre di migliorare». È simpatico - anzi, la sua contagiosa simpatia è probabilmente una delle cause del suo successo - e sa stare allo scherzo: «Ci metto sette-otto mesi per scrivere un libro. Poi la Mondadori ci mette un anno per correggere: per esempio quei “se io sarei”». Il discorso sul mondo della cultura si fa invece serio: «Non avendo studiato, ho sempre avuto pochi rapporti con i professori. Ma chi comunica agli altri una cosa che sa, per me è un eroe. Invece chi usa la propria cultura per rimarcare una superiorità, non mi piace. Io, se imparo una cosa, non la uso come un’arma: cerco di condividerla con chi non la sa. E poi non esistono lettori di serie A e lettori di serie B: esistono dei percorsi. Non tutti hanno avuto le stesse possibilità. Mio papà leggeva Quattroruote e mia mamma Grazia: quindi non è che io sia stato stimolato a prendere in mano i Fratelli Karamazov».
Rivendica con orgoglio la forza di volontà: «A un certo punto ho cominciato a leggere: avevo 17-18 anni, un po’ tardi, ma i libri hanno comunque cambiato la mia vita. Il mio destino era segnato: lavorare nella panetteria di papà, vivere in provincia. Leggere mi ha dato la forza di imparare ad accettarmi e mi ha fatto sentire meno solo: ritrovavo, nei personaggi dei romanzi, qualcosa di me, e mi è venuta la voglia di tentare l’avventura». I primi autori sono stati Hermann Hesse e Richard Bach. «Poi sono venuti Garcia Marquez, Philip Roth e uno scrittore che amo particolarmente, Romain Gary, quello de La vita davanti a sé. Adesso mi sono innamorato di Don Winslow, un ex investigatore privato americano». Non lo dice, ma sa a memoria buona parte della Divina Commedia. La sua umiltà pare sincera quando ammette: «Il fatto di aver abbandonato la scuola però mi penalizza. Ho sempre l’impressione, nelle mie letture, che mi manchino le basi, un metodo».
Però in quella decisione di lasciare gli studi c’è pure una parte di provvidenziale incoscienza, senza la quale forse Fabio Bonetti, nato nel 1972 in provincia di Bergamo ed emigrato in fasce in quella di Brescia, non sarebbe diventato Fabio Volo: «Quando abbandonai la scuola i miei genitori mi dissero: fa’ qualcosa che ti fa star bene, basta che fai qualcosa. In realtà neppure io sapevo esattamente che cosa volevo fare. Il mio primo desiderio era quello di andare via da quella vita segnata. Anche la voglia di rivalsa sociale è stata importante: la mia non è stata un’infanzia agiata».
Dicono poi, ed è vero, che i suoi libri, quando li si comincia a leggere, non si smette più, a costo di rimandare il sonno: fanno scattare quella smania, forse un po’ infantile, di sapere al più presto come va a finire. Come fa a ipnotizzarci così? Fabio Volo scrive d’istinto o c’è un metodo per catturare il lettore? «Credo che l’aver fatto la radio, e ascoltato tanta musica, mi abbia dotato di un orecchio che coglie il ritmo, che fa capire se il testo scorre oppure no. Questo ce l’ho dentro. Ma c’è anche molto lavoro. Rileggo tantissimo. E taglio pure tantissimo: quando consegno, mi rimane a casa praticamente un altro libro». Un altro marchio di fabbrica è l’universalità. Fabio Volo piace a tutti: maschi e femmine, giovani e attempati, sposati e single, credenti e miscredenti. Ma come fa? Eppure non cerca il consenso facile. La strada verso casa è un libro sulla famiglia, «anche molto conservatore», dice lui che già s’era detto contrario all’aborto, e che quando ha confessato di volere molti figli ha precisato «se non potrò averne, li adotterò». Non si preoccupa di perdere lettori: «Io dico quello che penso. Se poi uno vuole smettere di seguirmi perché ha opinioni diverse dalle mie, ne ha tutto il diritto». Cita Kurt Cobain dei Nirvana: «Preferisco essere odiato per ciò che sono piuttosto che essere amato per ciò che non sono».
Il successo di Fabio Volo è un imprevisto: «Molti cercano di capirne il motivo, ma in realtà non lo sa nessuno, me compreso. Posso solo dire che quello che faccio è originale, nel senso che assomiglia a me». Ed è soprattutto il successo di un intruso perché il mondo delle lettere perbene non riesce ad accettarlo. Lui non si stupisce: «Credo che in certa gente ci sia della coerenza. Per loro se ti fai capire da tutti vuol dire che non sei speciale: nei salotti più non ti fai capire, più sei stimato». Gli chiedo infine se spera di essere un giorno rivalutato, com’è accaduto, ad esempio, a Simenon: «Non lo penso e non lo spero neppure: piuttosto vorrei diventare, un giorno, più bravo di adesso».