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 2013  novembre 09 Sabato calendario

STUPRI E SEVIZIE SUL BARCONE LE VITTIME INCASTRANO LO SCAFISTA DI LAMPEDUSA


Lo aveva giurato in mezzo al deserto, con i piedi massacrati dalle scariche elettriche, con le orecchie riempite di minacce e di insulti, che gliel’avrebbe fatta pagare. «Ho pregato Dio giorno e notte perché mi facesse rincontrare quest’uomo, se fossi rimasto vivo», dice Alay, 35 anni, fremendo di rabbia davanti ai magistrati. «Prima mi ha buttato benzina sugli occhi, poi mi ha stuprato, lui con due suoi compagni, ero ancora vergine», racconta a testa bassa una ragazza di diciotto anni. «E’ toccato a tutte, a tutte le venti donne sequestrate».
Ce l’hanno fatta a sopravvivere e ce l’hanno fatta pure a inchiodarlo, quell’aguzzino che li aveva bloccati mentre camminavano nel deserto tra Sudan e Libia — loro e altri 128 migranti in fuga dalla fame e dalla guerra — e li aveva rinchiusi in una casa nella città di Sheba, «un campo di concentramento», dicono gli inquirenti. Gruppo sciagurato tra gli sciagurati, caricato sul barcone della morte, quello che il 3 ottobre naufragò vicino all’Isola dei Conigli di Lampedusa, portando con sé 366 uomini, donne e bambini, la più grande tragedia nella storia recente del Mediterraneo.
Lui, l’aguzzino, considerato uno dei capi dei mercanti d’uomini, si chiama Elmi Mouhamud Muhidin, ha 25 anni ed è nato a Beledweyn, in Somalia. Ieri è stato arrestato dalle squadre mobili di Palermo e Agrigento e dallo Sco di Roma, in esecuzione di un provvedimento emesso dalla Direzione distrettuale antimafia.
Un blitz al Centro di accoglienza di Lampedusa, dove l’uomo era arrivato il 25 ottobre a bordo di un barcone con altri novanta somali e dove quattordici eritrei sopravvissuti al naufragio lo hanno riconosciuto. «È lui, è lui, è lui che ci ha rapito, lui che ci ha torturato e violentato, lui che ha voluto cinquemila dollari da ciascuno di noi per quel viaggio», hanno gridato, tentando di aggredirlo.
Così per il giovane somalo sono scattate le manette per una sfilza di reati che vanno dalla violenza sessuale al sequestro di persona a scopo di estorsione, dall’associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, fino alla tratta di persone. «I reati sono stati commessi in Libia — spiega il sostituto procuratore di Palermo Maurizio Scalia, che ha coordinato l’inchiesta della polizia — ma ne risponderà in Italia perché adesso si trova nel nostro Paese e perché si tratta di reati che superano una certa soglia di pena».
Per gli investigatori è un mercante di uomini spietato, probabilmente arrivato a Lampedusa per diventare il terminale di un’organizzazione internazionale sempre più ramificata e, forse, collegata a Cosa nostra. Fa tremare, nei racconti della ragazza violentata, che fra le torture ci sia anche la specialità dell’incaprettamento che la mafia siciliana riserva agli «infami» da punire. «Nel peggiore dei casi a chi si ribellava — ha messo a verbale la donna — gli arti inferiori e il collo venivano legati con una corda, in modo che anche un minimo movimento creava un principio di soffocamento».
Racconti atroci, uno spaccato dal vivo di quel che avviene oltre il mare, nel deserto, dove le carovane di migranti sono alla mercé di predoni organizzati. «Quel somalo e una cinquantina di suoi connazionali — racconta Alay — ci hanno costretti, sotto la minaccia delle armi, a salire in alcuni furgoni e a piccoli gruppi ci hanno condotti con forza all’interno della casa nella città di Sebha, in Libia. Ci prelevavano uno per uno e utilizzavano il nostro telefono cellulare per chiamare i nostri familiari e chiedere un riscatto. Eravamo costretti a stare in piedi e in silenzio per tutta la giornata, siamo stati rinchiusi per periodi che variavano dai dieci ai sedici giorni. Picchiati e torturati».
Paradosso atroce, le vittime sono tecnicamente coimputate perché, per la legge italiana, rispondono del reato di clandestinità. Schiavi e colpevoli.