Alessandra Mammì, l’Espresso 8/11/2013, 8 novembre 2013
SONO L’ULTIMO UMANISTA
[Jannis Kounellis]
L’aveva inaugurato proprio lui, 15 anni fa. Uno strano spazio, umido, catacombale, misterioso, a un passo dal carcere di Regina Coeli, che un illuminato neurochirurgo (Franco Nucci) mise a disposizione degli artisti perché non fosse una galleria, ma una possibilità. Luogo che poteva essere trasformato dalle opere e dal lavoro. E al tempo stesso ispirasse le opere e il lavoro. Jannis Kounellis lo chiamò Volume. Si entrava (si entra ancora) da una porticina in via San Francesco di Sales e aprì con la performance di una giovane donna nuda all’ultimo mese di gravidanza seduta su una vecchia sedia al centro di un cunicolo. Kounellis l’aveva messa in scena una prima volta nel 1970. Poi, mai più. Ma la nascita di un nuovo e generoso spazio poteva ben essere raffigurata da quella "Madonna del parto" sui generis. Eterna e contemporanea.
Volume era una scommessa, ma funzionò grazie agli artisti. E ora per celebrarne il 15mo compleanno era giusto che Kounellis tornasse con un’altra benedizione. Di nuovo un corpo sia pure smembrato dove «le lastre scandiscono le esatte proporzioni del corpo. È pittura», dice. Parola che per lui non si riduce a pennello-colore-tela, ma comprende l’intero universo dell’arte (vedi box). Come ama spiegare a modo suo. Con le sue immagini, i suoi paradossi, la sua logica sorprendente, la potente visione dell’arte e di quel sistema dell’arte che lo trascina da una parte all’altra del mondo, come maestro indiscusso della nostra contemporaneità.
Una mostra a Trieste, una a Roma. Ieri in Cina, ora in Corea. Non si stanca? Perché tutta questa iperattività?
«Non è iperattività, lo faccio per naturalezza. L’ho fatto tutta la vita, non ho mai smesso. Si cominciò a far mostre perché avevamo necessità di fare domande. Non di uno spettacolo ma di una diversa posizione dell’artista, verso se stesso e verso il mondo. Fare una mostra con cavalli vivi (storica installazione del 1969, Roma, galleria di Fabio Sargentini, ndr.) è diverso dall’esporre acquerelli. La mostra per me e per i miei amici, non era una conferma formale ma la possibilità di una drammaturgia da narrare. Forse faccio ancora così tante mostre in nome di quel vecchio sogno».
Di quale drammaturgia parla?
« Dell’intera iconografia italiana: Caravaggio, Tiziano, il "Cristo morto" di Mantegna. La potenza drammaturgica che è la nostra stessa identità, quella che ci rende diversi da Mondrian. Quando sono entrato nell’ex Pescheria di Trieste ho pensato che era uno spazio austroungarico e anche l’immagine di una città di mare e di confine. E allora ho cercato i vecchi tavoli per i pesci, ne ho fatto la spina dorsale della scena e su quella ho deposto pezzi di barche grandi e piccoli, mentre le pietre che cadevano dall’alto creavano le verticali. Tutto questo senza mai perdere di vista il fatto che quella era una Deposizione. Io appartengo alla logica che persino ora, in mezzo a tanta cultura globale, mi fa dire che sono un umanista».
La cultura umanistica sembra sia entrata in crisi.
«Non so di che parla. Finché respiro la cosa non mi riguarda. E mi basta entrare in un museo per capire che non dovrebbe riguardare nessuno di noi. Tiziano, Mantegna, Caravaggio. Lì sono a casa, mi sento parte di un tutto armonioso. E quell’umanesimo è concreto, appeso ai muri dei nostri musei. Garantiscono che la cultura umanistica è viva. Cos’è in fondo la prospettiva se non un dispositivo per mettere l’uomo al centro di tutto? Lo so bene, faccio tante di quelle mostre, che i musei li conosco».
Già ovunque nel mondo, anche in Cina. Mesi di lavoro e di viaggi in tutto il paese per la mostra all’Art Today Museum di Pechino. Come è stata accolta?
«È andata bene. È piaciuta molto, ne sono contento. Ho usato la loro memoria. Ma più che nei musei l’ho trovata nei mercati: laggiù ne ho trovati di straordinari. Mi faceva impressione l’accumulo di porcellane rotte messe in vendita e mi chiedevo: ma perché questi vendono cose rotte? Qualcuno mi ha risposto che quella massa di cocci era ciò che restava dei servizi da tè distrutti all’epoca di Mao, in quanto oggetti borghesi. Ma non credo sia vero. Comunque li ho comprati. E ho usato i frammenti per comporre una scrittura ermetica».
E lei che impressione ha avuto della Cina?
«Ho visto quella vitalità e quella forza epica che un tempo per noi aveva l’America. Un’America ancora bella e senza la quale non potremmo vivere. Ma vista da lì ha una delicatezza ottocentesca».
È l’effetto della globalizzazione.
«Non saprei. Io non sono globale, sono internazionale. Esco dalla mia casa, faccio un viaggio perché sono attratto dall’altro e voglio andare a trovarlo. Non voglio perdermi nelle strade. Questo giustifica la mia vitalità. Perché essere vitale vuol dire essere certo. Altrimenti è vitalismo, una cosa superficiale».
Lei parla molto dei nostri musei antichi, cosa pensa invece dei musei contemporanei?
«I musei contemporanei li fanno le persone, la loro vitalità intellettuale, le loro scelte. Un tempo c’erano direttori straordinari, consapevoli, coraggiosi. Palma Bucarelli ad esempio è stata straordinaria, ha preceduto i tempi con le mostre di Pollock, Burri, Manzoni. L’ha anche pagata cara (curatrice alla Galleria d’Arte Nazionale fu oggetto di attacchi, anche da parte dei politici, ndr.). Per il resto, lavoro molto con i musei tedeschi. Sono affezionato alla Germania è un paese colto».
Non ha risposto. La domanda è: cosa pensa dei musei italiani contemporanei?
«A volte ho visto una bella volontà politica come al Madre di Napoli, ma poi tutto è andato in crisi e ora aspettiamo di vedere cosa potrà fare questo giovane direttore Andrea Villani. Altre volte invece vedo nascere spazi orribili».
Addirittura orribili?
«Luoghi volutamente sfalsati, basta guardare il MaXXI con quella scala degna di un musical e non di museo. Io amo la modernità ma il modernismo è un equivoco. Questi architetti hanno fatto vittime con la loro modernità senza storia e invece la modernità deve essere frutto della storia, deve nascere da un rapporto dialettico. Appartengo a una generazione che dagli anni Sessanta fa mostre ovunque, dalle chiese alle fabbriche abbandonate. Abbiamo creato una lingua per questo. Sappiamo che l’artista inventa tutto e non ha bisogno di nessun museo, ma il museo invece non vive senza l’artista e neanche senza una forza critica e intellettuale che un tempo era richiesta: un bravo direttore insomma».
Ora accanto agli artisti c’è il curatore.
«Curatore è un termine medico. Io non capisco bene cosa significhi. La mia generazione non ha avuto bisogno di essere curata per mettere quadri a un muro. Semmai si aveva bisogno di un direttore con cui parlare e discutere. Qualcuno che dava un’amichevole spinta verso la radicalità. Poi magari si andava anche a bere un bicchiere. Invece questi musei globali, costruiti su un modello dello shopping mall, offrono una debolezza, perché il punto di forza dell’arte non si risolve nella costruzione di un museo, ma nella necessità di andare fino in fondo al dibattito sulla forma. Anche un buco può bastare, basta che dentro accadano delle cose che rispecchino la moderna dialettica. C’è questo e basta. In fondo la nostra è una chiesa monotona».
Ma in Italia non pensa che ci sia troppa distanza fra arte contemporanea e arte del passato?
«Questo è un difetto politico non culturale. L’arte è una unicità, appartiene a un unico disegno. Siamo occidentali da oltre tremila anni, non c’è barriera, tutto è sincronico e la contemporaneità è parte del tutto. Queste divisioni o catalogazioni sono un alibi. Prima c’era l’alibi della sperimentazione. Anche qui: mai capito che significhi questa parola. In questo senso mi sento un conservatore. È un termine che va bene per la chimica, ma non c’entra niente con l’arte. Altro che esperimento, c’è bisogno di assoluta certezza per poter cantare il nuovo. Un quadro come "Les demoiselles d’Avignon" è la certezza di un rivoluzionario. Dire che Picasso ha fatto un esperimento significa non ricoscere la sua genialità».
Eppure intorno al "Caso" nel corso del Novecento si son costruite intere poetiche.
«Ma cosa c’entra il caso con l’esperimento? Sposare il caso è gesto di enorme intensità poetica ma sperimentare equivale a dire che l’artista non ha colpa. Invece l’artista è sempre responsabile e quindi colpevole. Non mette due cose insieme e se poi non funzionano... pazienza. Nessun vero poeta scrive per vedere l’effetto che fa. Dobbiamo ricominciare a dare un peso alle parole».
Curatore, globalizzazione, arte sperimentale. Non le piace il nuovo linguaggio intorno all’arte.
«Per forza non mi piace. Sembra di essere finiti in una società miracolistica».
Ma che differenza c’è fra il critico o direttore di ieri e il curatore di oggi?
«Il curatore oggi si bagna nella piscina del pragmatismo, mentre il critico di allora era un idealista come noi. Il declino dell’idealismo comincia negli anni Ottanta con le logiche del mercato e la morte del grande borghese collezionista. In fondo quando la borghesia perde la sua centralità economica e culturale il mercato dell’arte ha cominciato a cambiare verso derive sempre più speculative. Fiere, case d’aste, trecento biennali e quel che è più grave la fine di una unicità critica. Per uscire da questa situazione bisognerebbe smettere di contare e ricominciare a vedere».
Lei è pessimista?
« Assolutamente no. Sono ottimista. Se vai a Capodimonte e vedi Tiziano o la "Crocifissione" di Masaccio non puoi non essere ottimista. Quello presente è solo un momento maldestro. Passerà».