Stefania Rossini, l’Espresso 8/11/2013, 8 novembre 2013
UNA VITA DA ANIELLO
[Aniello Arena]
La faccia intensa di Aniello Arena racconta subito Napoli. Ha la mascella di Totò, le guance scavate di Eduardo, gli occhi puntuti di Tina Pica. Come loro Aniello è un attore, anzi un grande attore, che ha trovato il teatro, il cinema e se stesso dopo una vita da balordo che lo ha portato fino all’ergastolo. Ancora incredulo del successo che lo ha travolto per la sua interpretazione del pescivendolo allucinato nel film "Reality" di Matteo Garrone, Arena calca ogni giorno le tavole di un palcoscenico speciale, quello allestito da Armando Punzo, altro napoletano di talento, che lavora da decenni con i detenuti del carcere di Volterra.
Restio fino ad oggi a parlare del passato, della naturale illegalità vissuta in famiglia, della sua abile tecnica di scippatore, delle sue rapine, della faida sanguinosa tra camorristi di cui ancora si dichiara innocente, Arena ha riversato tutto in un’autobiografia potente e drammatica, scritta con l’aiuto di Maria Cristina Olati, che uscirà in libreria per Rizzoli il 13 novembre. Il titolo "L’aria è ottima (quando riesce a passare)" allude soprattutto alla rinascita, allo spiraglio di vita e di senso che il condannato a fine pena mai ha saputo dare a se stesso attraverso la recitazione.
Arena, il suo libro ha pagine dure e difficili. Come mai ha deciso di mettersi a nudo proprio ora che è diventato un divo?
«Perché solo ora sono riuscito a disotterrare certe cose a cui non volevo più pensare. E poi ho la speranza che quello che ho scritto possa servire».
A chi?
«Ai ragazzi del Sud che prendono una strada sbagliata. Vorrei che gli operatori che combattono nelle periferie degradate gli dicessero: "Guardate quant’è brutta la storia di Aniello. Se non ci pensate in tempo, fate la fine di questo qui"».
Il suo racconto però è anche un grido continuo di innocenza rispetto alla strage per cui ha avuto l’ergastolo. Pensa che qualcuno le crederà?
«Non ci spero, ma l’ho voluto raccontare lo stesso. Vede signora, io nel libro ho scritto tutto: i primi scippi, i furti, le rapine, anche quelle grosse negli uffici postali. Sono andato a rubare perché chi, come me, cresce in certi quartieri lo ritiene un lavoro come un altro. "Vado a faticà" diciamo a Napoli. Però io quei due non li ho ammazzati, io quel giorno ero in un altra città, ma i giudici non mi hanno creduto».
Forse anche perché tutti i detenuti si dicono innocenti.
«Mica è vero. Lo dicono all’inizio, quando vengono arrestati. Poi, nelle case penali, piano piano si smette, perché a parlare sempre di innocenza si diventa pesanti e ci si scoccia l’uno con l’altro».
Insomma lei non è stato un camorrista. Eppure la sua favola bella è proprio questa: dalla delinquenza all’empireo del cinema.
«Delinquente sì, con tutti i casini che ho combinato è pure giusto che mi si chiami così. Ma io i camorristi veri li ho visti solo da lontano. Quando da ragazzino lavoravo come muratore anche dieci ore al giorno con carichi di un quintale sulle spalle, certe volte mi fermavo a guardare la bella gente al bar. Sapevo che non lavoravano eppure avevano l’auto di lusso, i soldi, gli orologi costosi... Ero affascinato».
Non li ha mai avvicinati?
«No, perché poi ho capito presto che le strade che ti offre la camorra sono solo due: galera o morte».
A lei è toccata la prima.
«A mio cugino, che è quello che mi ha ingrippato perché mi faceva fare piccoli servizi, vai a chiamare quello, vai a prendere quell’altro, ma stava con la camorra, è toccata la seconda: lo hanno ammazzato».
Molte pagine della sua autobiografia sono dedicate anche al carcere. Lei ha subito quelli più duri e non risparmia accuse.
«Ho sempre pensato che trattamenti come quelli che fanno a Poggioreale generano mostri. Se tu pigli un ragazzino che è dentro per uno scippo e lo tratti brutalmente, lo provochi, lo pesti, quello quando esce fa pagare tutta la sua rabbia alla società. Certe galere sono scuole del crimine».
Lei è mai stato pestato?
«Ho conosciuto le "squadrette", quelle che, se facevi qualche protesta, ti venivano a prendere, ti portavano in cella di isolamento e nessuno sapeva più niente di te. Una volta mi salvai da un pestaggio che prometteva una morte sicura seguendo il consiglio di un cellante più anziano: "Fa ’o scemo, nun fa ’o tosto che t’accirono". Trasformai la mia voce in quella di un fessacchiotto e mi stampai in faccia un sorriso ebete. Fu la mia prima recita ma era fatta per salvarmi la vita».
In seguito sono arrivate le recite vere, quelle che l’hanno trasformata in Mercuzio o in Pinocchio e che l’hanno portata al grande cinema».
«Guardi che neanche questo è stato facile. Quando mi hanno trasferito a Volterra, che è un carcere come dovrebbero essere tutti, dovevo ancora fare un anno di isolamento. Poi ho finito e alcuni mi dicevano: "C’è il teatro di Punzo, vacci, vacci". Ci sono andato ma mi vergognavo e per un anno me ne sono stato in un angolo a guardare senza capirci niente».
E poi?
«Mi sono sbloccato e ho capito che potevo farcela. Recitare mi faceva sentir bene anche se non avevo ancora la consapevolezza di essere un attore. Mi sono sentito davvero attore solo quando sono andato a girare il film nel 2011. Ma lo sa che Garrone aveva scelto me anche per "Gomorra"?».
Come protagonista?
«Sì, Servillo si è preso la parte che toccava a me perché allora io non godevo ancora della legge 21 per uscire in permesso e il giudice a cui ci siamo rivolti ha detto: "Eh no, è prematuro tornare nei luoghi di origine e poi c’è troppa contiguità con l’argomento del film"».
Invece per "Reality" è andato a finire addirittura nel suo vecchio quartiere.
«Abbiamo girato a Barra e mi sono venuti su tutti i ricordi, chi ero stato, chi ero attualmente. C’era l’Aniello di un tempo che faceva tutto per tirarmi nel passato, ma ha vinto l’Aniello di oggi. Però mi sono domandato se questo conflitto è stato un freno, se potevo andare ancora meglio».
«Ancora meglio? Arena, lei è stato nella rosa per il miglior attore a Cannes, ha vinto a Taormina. Che voleva di più?
«Beh, certo Cannes è stata una grande cosa. Seguivo il Festival dalla cella e, quando hanno pronunciato il mio nome accanto a quello di Trintignant, ho quasi gridato: "Ma sono io quello! Ma stiamo scherzando!"».
Sì è sentito così anche quando, al Quirinale, Giorgio Napolitano le ha stretto la mano?
«Sono soddisfazioni. Ero trattato come tutta quella bella gente. Però non c’era bisogno del Quirinale per farmi sentire a posto, perché è da qualche anno che dentro di me non sono più un detenuto».
Come la trattano i suoi colleghi attori?
«Un sacco di complimenti, baci e abbracci. Ma mi hanno riferito che qualcuno ha detto: "Adesso bisogna essere strani per avere i premi"».
Lei è in carcere da vent’anni. Come mai nel suo libro, che parla di tutto, non c’è nessun accenno alla sessualità, uno dei problemi più seri di chi è recluso.
«Non volevo strafare con troppe denunce. Se mi mettevo pure a scrivere che in quasi tutta Europa, se te lo meriti, ci sono permessi per stare con la moglie una volta al mese, potevano dirmi: "Aniè, ma tu chi sei? Non basta che hai sbagliato per la giustizia e mo’ sei un attore famoso. Vuoi stare pure a criticà"».
E dentro il carcere? Lei racconta molte situazioni, ma del sesso tra detenuti neanche una parola.
«Perché non c’è. In carcere, parlando con rispetto, uno si masturba e basta. Non c’è altro».
Neanche come sopraffazione o come incontro sentimentale?
«Assolutamente no. Se ci sono delle persone che già fuori erano gay, se la vedono tra loro. Ma non si viene mai a sapere perché è una cosa che non viene accettata. Non è omofobia, ma non piace».
Lei ha due figli ormai adulti. Com’è stato essere padre dietro le sbarre?
«Non ve lo so descrivere. È un rapporto non vissuto: li ho visti sempre con un bancone fra noi anche se senza vetri. Oggi che sono grandi a volte li sento come se fossero estranei».
Però almeno si è fatto ricco. Li può aiutare finanziariamente.
«Ma non sono mica stato pagato come un attore di carriera. La prossima volta forse potrò chiedere di più. Comunque prima e adesso ho sempre mandato a casa tutto il possibile».
Un’ultima domanda, Arena. Quand’è che ha scoperto di essere intelligente?
«Non so, ci sono tanti tipi di intelligenza. A quale si riferisce?».
A quella che ha dimostrato lungo tutta questa intervista.
«Beh, forse ho pensato che stavo diventando intelligente quando ho cominciato a capire che ho buttato via tutta la mia gioventù e mi sono detto "Aniè, ma che hai combinato nella vita?"».