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 2013  novembre 08 Venerdì calendario

ISRAELE NON C’ENTRA, ARAFAT ASSASSINATO DAI SUOI


Io ero davanti alla Moqata, il quartier generale palestinese a Ramallah nel novembre 2004, durante l’agonia di Arafat ricoverato a Parigi: c’erano centinaia di giornalisti da tutto il mondo, non un palestinese. A Ramallah nei bar ci chiedevano con scherno: «Allora, il vecchio se ne è andato»? L’indifferenza era palpabile. L’isolamento di Arafat dal suo “popolo” era palese. Un Arafat che aveva stancato il suo popolo era lo scenario migliore per Israele. Perché avvelenarlo? Un non senso. Però, per entrare nella Moqata dovevi passare un filtro ferreo di controlli, mentre sul piazzale sostavano le fuoriserie enormi dei vari ras palestinesi che arrivavano cupi, le dita piene di anelli. Un quadro di controllo ferreo, e di disperazione politica che porta a una sola conclusione: la mano che ha avvelenato Arafat, se è stato avvelenato, va cercata dentro, non fuori le mura della Moqata, nella millenaria, tradizione araba.
D’altronde si sta già smontando la “notizia bomba”di un Arafat ucciso con un avvelenamento di Polonio, che già suscitava molti dubbi, a iniziare dal ben strano comportamento della vedova, Shua, che alla morte del raìs aveva rifiutato l’autopsia, salvo chiederla a ben 8 anni di distanza. Il professore Francois Bochud dell’Università di Losanna che ha diretto le analisi sul corpo di Arafat ha detto che la scienza, in buona sostanza, non può neanche affermare con certezza che l’avvelenamento da Polonio sia stato la causa della morte: «I nostri risultati sostengono che sia ragionevole la tesi dell’avvelenamento, ma non possiamo dire con certezza che il polonio sia stato la causa della morte, ma solo che non lo si può escludere. È comunque certo che la presenza di polonio sui resti di Arafat nella misura di 18 volte la soglia di tolleranza umana, presuppongono necessariamente l’intervento di un terzo ». Questo «terzo» non poteva che essere palestinese. Nella più classica tradizione della biografia di Arafat, tutto è chiaro, perché è tutto oscuro.
Resta il ricordo ai limiti dell’osceno della trattativa condotta sul letto di morte di Arafat dai dirigenti della Olp,Abu Mazen e Abu Ala, che offrirono a Shua Arafat due milioni di dollari solo per ottenere che lei dichiarasse pubblicamente che Arafat era morto, come era morto. Resta l’imbarazzo di Chirac (Arafat era ricoverato a Parigi) perché accanto alla signora Arafat vi era, come consulente finanziario, Pierre Rizk, un cristiano maronita libanese che guidò i servizi segreti falangisti durante la guerra civile in Libano e che aveva stretti contatti con i gruppi responsabili dei massacri di Sabra e Shatila. Resta il fatto che Shua riuscì alla fine a mettere mano su una parte consistente del patrimonio di Arafat - le tasche dell’Olp e di al Fatah coincidevano con le sue - siglando un compromesso Abu Mazen.
Resta soprattutto il fatto che - se effettivamente Arafat fu avvelenato - il mandante va ricercato ovunque, tranne che in Israele. Nell’autunno del 2004 infatti i raìs aveva già consumato la sua ennesima, disastrosa sconfitta e se ne stava rifugiato come un vecchio stanco nella sua Moqata. Era fallita l’Intifada delle stragi che aveva proclamato nel 2000, dopo avere rifiutato la restituzione del 95% dei Territori occupati da Israele offertigli dal premier israeliano Ehud Barak, lasciando dietro le spalle il terribile bilancio di 3.858 morti palestinesi e 1022 morti israeliani (quasi tutti civili). Una strage insensata, che buona parte della dirigenza palestinese aveva dichiarato un errore. Nel 2004 Abu Mazen aveva già urlato ad Arafat, alla Moqata la frase terribile: «Sei l’unico leader nazionalista che ha perso la sua battaglia in tutto il secolo, questa Intifada non ha senso». Era il quadro migliore per Israele: Arafat era discreditato nell’Olp, era isolato tra i leader arabi: non poteva trattare la pace e non poteva più fare la guerra. Se si cerca il “cui prodest” dell’eventuale avvelenamento di Arafat bisogna dunque rifarsi alla pluridecennale uccisione di dirigenti palestinesi ad opera di palestinesi, o di leader arabi. Non altrove.