Maurizio Chierici, Il Fatto Quotidiano 8/11/2013, 8 novembre 2013
VIA SOLFERINO 28, IL TRISTE ADDIO A UNA PAGINA D’ITALIA
La tradizione della Milano fantasia e cultura corre dalla Scala al Corriere della Sera. Recite quotidiane che cominciano nella scapigliatura di via Brera anni 60 quando le immagini di Ugo Mulas sorprendono Luciano Bianciardi e Dario Fo in chiacchiere agitate attorno al tavolo di Camilla Cederna. E le vetrine di via Solferino avvicinano al Corriere le tentazioni di gioielli, tovaglie apparecchiate, banconi di caffè. E architetti, stanze della moda, librerie.
DA UN SECOLO il palazzo del Corriere è il terminal di una Milano diversa. Non solo monumento liberty al giornalismo, affollato come un piccolo un paese: 1500 persone che la tecnologia comincia a diradare 20 anni fa. Rotative trapiantate in campagna, ultima fermata metrò dove adesso rischiano di finire giornalisti e macchine della tipografia in esilio coatto. Per pagare i debiti di amministratori che hanno amministrato la tradizione con la disinvoltura di chi fabbrica mortadella, lasciano il palazzo costruito nel 1904 dall’architetto Luca Beltrami impegnato dai Crespi a riprodurre la dignità del Times di Londra, vocazione rispettata fino a qualche mese fa. Nel bene e nel male via Solferino 28 è l’indirizzo che ha accompagnato la storia d’Italia.
Le luci non si spegnevano mai. Nella notte l’angolo più agitato di Milano. Non esisteva la teletrasmissione: stampavano 600mila copie dietro al portone di via San Marco, giornali raccolti da camion che correvano a Torino, Roma, Napoli, in ogni città. Caffè aperti fino a quando il cielo schiariva e la città “ normale “ alzava le saracinesche. Sulle pareti dello scalone che sale al primo piano sono appesi i ritratti dei grandi collaboratori. Hanno scalato i gradini con gli articoli in mano. Nel 1914 scalava Gabriele D’Annunzio: portava il manifesto che incalzava l’ Italia a entrare in guerra. Non sale le scale Curzio Malaparte, nom de plume di Curzio Sucker. Il fascismo l’ha chiuso nel confino di Lipari e dall’esilio manda gli articoli a Borelli, direttore che il fascismo ha messo di guardia al Corriere . Arrivava Luigi Einaudi, scendeva Luigi Pirandello. Alle sei del pomeriggio passavano per l’aperitivo Umberto Eco, Fortini o Montale il quale cercava sempre un volontario per tornare a casa risparmiando sul taxi. Tutti i grandi hanno costruito la gloria di via Solferino 28, fino a Enzo Biagi e Indro Montanelli, che se ne andò in modo lacerante per fare Il Giornale e poi, dopo La Voce, tornò. Pasolini consegnava gli scritti corsari a Piero Ottone, direttore fino all’arrivo della P2. Mal sopportato dalla Dc di Fanfani e dal Gelli P2, aveva slegato la lealtà dell’informazione dai potentati per dare spazio a una trasparenza british e mai partigiana. Ricorda ilCorriere dei Crespi come l’ultimo giornale felice. “Non pensavano tanto al denaro: erano ricchi. Volevano essere editori rispettosi della realtà. Giulia Maria Mozzoni Crespi parlava con gli inviati di ritorno da viaggi lontani, come facevano Sulzberger del New York Times e la Graham di Washington Post. Voleva capire cosa succedeva nel mondo”. Una tragedia il confronto con gli editori “impuri” dei nostri giorni. E poi le liturgie di un’azienda d’altri tempi anche se succedeva pochi anni fa. Quando un direttore se ne andava dal giornale, il segretario di redazione lo accompagnava alla porta di via Solferino. E sulla porta di via Solferino aspettava il nuovo responsabile. Apparteneva alla ritualità delle aziende lombarde festeggiare la vigilia di Natale con giornalisti e tipografi. Chiusa la porta, panettone e spumante. Giulia Maria distribuiva sorrisi un po’ a disagio nella folla che allungava la mano del saluto. Vecchia Italia dei padroni illuminati che per fortuna non mollano. In questi giorni di svendita, la signora scrive al sindaco Pisapia. Nella lista delle cessioni il campo da calcio per i “lavoratori del Corriere ”, dietro al Musocco, nascosto fra alberi secolari. Chi compra presenta progetti per palazzi, deserto di mattoni. E la signora che ha inventato il Fai non ci sta.
TRAPIANTARE un grande giornale in periferia può immalinconire le abitudini della città, ma nella cultura diffusa non allenta il rapporto coi lettori. Forse non è così. Vent’anni prima dell’Italia, i giornali americani hanno vissuto il boom delle pagine da moltiplicare: mille la domenica. E poi inserti, riviste. Le redazioni diventavano piccole. Ecco l’emigrazione in posti lontani. Con l’accortezza di chi non se la sente di allungare il filo coi lettori, il Washington Post continua a stampare nella sede storica, mille metri dalla Casa Bianca. Rotativa dietro un’immensa vetrina illuminata. Le auto passano, rallentano, aspettano di vederla girare. Chi guida scende e compra. Nella notte, file interminabili di camioncini scaricano la parte voluminosa stampata in periferia: come formiche centinaia di mani la avvolgono nelle pagine uscite dalla vecchia macchina rimasta in città. Qualcuno se ne accorge ? Raffaele Fiengo, guida storica del Comitato di Redazione del Corriere , ha documentato l’esperienza: “I lettori lo sentono e sono contenti che il loro giornale sia rimasto accanto ai loro problemi e alle loro storie”.