Riccardo Staglianò, il Venerdì 8/11/2013, 8 novembre 2013
LA FELICITÀ AL POTERE
Montevideo. «Adattamento rivoluzionario, come una seconda pelle». È lo slogan azzurro sotto le ultime Nike da corsa, quelle con la tomaia di maglia, che brillano di una luce radioattiva in una vetrina già parecchio scintillante. La contraddizione essenziale tra sostantivo e aggettivo, che il marketing magicamente rappacifica, è solo l’inizio. Perché, prima di diventare il centro commerciale Punta Carretas, questo era il carcere di Punta Carretas. E al posto di sconfinati negozi, lindi e deumidificati, c’erano dei buchi neri che per pietosa convenzione chiamavano celle, tra le tante in cui l’attuale presidente della Repubblica Orientale dell’Uruguay è stato inghiottito nei suoi quattordici anni di prigionia. Dieci in quasi totale isolamento. A volte in fondo a pozzi. Parlando con formiche e rane per non impazzire. Lasciandoci un rene, perché gli davano da bere col contagocce. E guadagnandoci una saggezza che gli fa dire, ricombinando Seneca con chissà quanti altri, che «chi non è felice con poco non sarà felice con niente». Lui, José «Pepe» Mujica, è felicissimo anche rinunciando al 90 per cento del suo stipendio presidenziale. E ha riadattato pezzi di teoria marxiana per spiegare perché il consumismo compulsivo, del tipo che si pratica dentro queste mura, è la schiavitù che molti hanno allegramente scelto di infliggersi. Le sue scarpe, per la cronaca, sono delle espadrillas color carta da zucchero, che con gli anni – più che invecchiate, d’antiquariato – hanno assunto la forma esatta dei suoi piedi. La via proletaria al costoso miracolo promesso dalle tecno-sneakers.
Brevi note biografiche. Mujica nasce nel ‘35, da madre originaria della Liguria e padre coltivatore. Ciclista promettente. Fa studi di agronomia e si appassiona a come ripartire (politicamente) la terra in modo più equo. Dai primi anni Sessanta fa parte dei Tupamaros, un movimento di lotta armata che si muove sull’onda della rivoluzione cubana. Lo arrestano quattro volte. Gli mettono sei pallottole in corpo. Organizza la più massiccia evasione della storia, così almeno la raccontano i sudamericani, facendo uscire 106 persone grazie a un rocambolesco scavo di tunnel. Quando lo riacciuffano seppelliscono vivi lui e gli altri otto principali leader del movimento. Al primo passo falso dei compañeros fuori, uccideranno uno dei «nove ostaggi» dentro. Dopo tre anni gli consentono di ricevere libri. Lui chiede testi di matematica e Chacra, una rivista di agraria. Reni e vescica però non reggono. I medici prescrivono due litri d’acqua al giorno, i secondini gliene concedono una tazza. Sua madre gli porta un vaso da notte rosa, ultima spiaggia dell’emergenza liquidi. Beve la sua pipì. Quando nell’85 finisce la dittatura militare e li liberano lo brandisce come un talismano, pieno di margheritine. Dai diamanti non nasce niente. Dalle viscere della terra alla terra, visceralmente. Trova un appezzamento verde al Cerro, a una mezz’ora dalla capitale, con una casetta a un piano, col tetto di lamiera. Nel ‘95 è il primo ex tupamaro a essere eletto in Parlamento. Poi diventa senatore. Poi ministro dell’Agricoltura. Infine, nel novembre 2009, presidente con il 52 per cento dei voti (slogan: «Un governo onesto. Un Paese di prima classe»). È cambiato tutto, tranne l’uomo. E la casa, di una cinquantina di metri quadrati, in cui vive con la moglie e che preferisce alla residenza presidenziale. È nel soggiorno, davanti a un tavolinetto su cui è quasi impossibile prendere appunti tanto è angusto e stracolmo di carte e libri, che si svolge l’intervista.
Roma-Montevideo, da quando non ci sono più voli diretti, è un’odissea lunga un giorno. Niente in confronto alla distanza siderale tra Montecitorio/Palazzo Chigi e Plaza Independencia. Dei novemila euro cui avrebbe diritto come appannaggio mensile, Mujica ne prende 900 e dà il resto in programmi di microcredito. Senza tanti bizantinismi, oltre il groviglio apparentemente indipanabile tra indennità fissa o variabile, diaria o rimborsi, che aveva fatto alzare bandiera bianca alla commissione Giovannini: 9 parti al popolo, 1 parte per sé. Semplice. Con ancora negli orecchi le parole di Antonio Razzi, ex Responsabile poi Pdl, che commentando terrorizzato l’autoriduzione grillina disse che avrebbe significato «dormire in un sacco a pelo», gli faccio la domanda delle domande: «Perché lo fa?». Segue il capitolo principale del Mujica-pensiero: «La mia idea di vita è la sobrietà. Concetto ben diverso da austerità, termine che avete prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente senza lavoro. Io consumo il necessario ma non accetto lo spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli. E il tempo della vita è un bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L’alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui, che però ti tolgono il tempo per vivere». Dal vangelo laico del presidente. Che poi aggiunge: «Lo spreco è funzionale all’accumulazione capitalista», che per essere alimentata «ha bisogno che compriamo di continuo, ci indebitiamo fino alla morte». Ma la vita dovrebbe essere un’altra cosa. Tipo mettere come fondamento la felicità, conseguenza di un comportamento morale. Eudaimonia dunque, non edonismo. Ché altrimenti «se in 7 miliardi vivessimo tutti come il nordamericano medio ci vorrebbero tre pianeti. Serve misura. E fare delle scelte».
Lui un catalogo ce l’ha. E il vantaggio rispetto ai politici che conosciamo è che, quando parla di ridurre la diseguaglianza economica, tendi a crederci. Perché non lo dice, lo fa. Potrebbe stare nel castello, preferisce questa camera e cucina e dare il resto a chi non ha neanche quello. Nessun Letta o Alfano, dall’alto dei loro stipendi, riescono a suscitare altrettanta fiducia. Perché la realtà mantiene un vantaggio sulle parole. Dalla tribuna della sua coerenza Mujica può ripetere dunque cose già dette, ma che acquistano un peso specifico diverso: «Se si dimezzassero i 2000 miliardi di dollari per spese militari si cancellerebbe la fame dal mondo. I mezzi ci sono, li spendiamo male». Oppure: «Si parla da 20 anni di Tobin Tax, sulle transazioni finanziarie? Per Wall Street cambierebbe poco, tantissimo invece per il welfare in crisi ovunque: perché non si fa?». Obama, per dire, lo ha incontrato e lo «rispetta molto», però pare che «conti più Bernanke che lui, più l’economia della politica. Ed è sbagliato». Anche papa Francesco ha conosciuto: «Un gran personaggio. Condividiamo la sobrietà. Se lo lasciano fare potrebbe riportare la Chiesa a una vocazione più popolare ». Perché, all’osso, la differenza tra destra e sinistra è proprio che quest’ultima dovrebbe avere «come priorità la fratellanza, ridurre le differenze economiche, e quindi sociali» che per la destra sono invece buone e auspicabili. Sarà mica socialista? «La sinistra, anche in Uruguay, la dividerei in tre fette: i nostalgici, che dicono le stesse cose di 50 anni fa, quelli totalmente in linea col mercato e infine quelli, come me, che ne riconoscono l’indispensabilità, ma lo criticano per migliorarlo. Perché io so bene che il capitalismo serve a produrre ricchezza, quindi tasse, buone per i servizi di cui anche i poveri si avvantaggiano. E so anche, come non capivo invece qualche decennio fa, che non ha senso sacrificare una generazione promettendo la felicità per quella successiva. A quest’idea rivoluzionaria, che ha avuto il sopravvento a Cuba e altrove, preferisco una via più gradualista che non perda di vista che la partita si deve vincere adesso, in questa vita».
Non punta alla dittatura del proletariato. Ma a ridurre il tasso di abbandono scolastico che oggi si aggira sul 40 per cento. O ad ampliare il progetto One Laptop Per Child che ha già distribuito un milione di computer low cost ad altrettanti ragazzini. Vuole moltiplicare le cooperative di lavoratori, la sua terza via tra mercato e socialismo: «Uno è molto più felice se è il capo di se stesso. E abbiamo centinaia di esempi, come Envidrio, una vetreria gestita dagli ex dipendenti che va benissimo. Serve un cambiamento culturale per far questo, ma dà risultati duraturi. Non com’è successo nell’ex Unione sovietica, passata dallo statalismo agli oligarchi». La nostalgia non attacca sul compagno Mujica, lui scommette su un umanesimo nuovo. Che ha qualcosa della «decrescita felice» («Sì, ho letto Latouche, ma mi influenzano di più i classici: i problemi dell’uomo sono da sempre gli stessi»), però preferendo l’aggettivo al sostantivo. Così è andato in visita a Pechino per convincere i cinesi a costruire un sistema ferroviario uruguayano finalmente decente. Ha aperto il cantiere per un porto in acque profonde a Rocha che potrebbe cambiare le rotte commerciali dell’intera regione. E le trivellazioni per possibili pozzi di petrolio sono un altro dei suoi progetti per far crescere un Paese che, come il fratello maggiore argentino, ha agganciato la ripresa alla locomotiva cinese esportando soya, grano, carta e carne nella fucina del mondo. Bisogna fare più soldi e ripartirli meglio. Perché «la politica è l’arte di organizzare il futuro, senza subirlo come se fosse un terremoto».
Non sorprende che l’orazione di Mujica al Summit Onu di Rio del giugno 2012 sia diventata un classico («Il miglior discorso del mondo» titolano su YouTube), nello stesso pantheon di quelli di David Foster Wallace o Steve Jobs agli studenti. E quando dice che «la vita è breve, ci scappa dalle mani, e nessun bene materiale vale altrettanto: capire questo è fondamentale» all’ascoltatore avvertito scorre davanti il film della vita di questo Mandela sudamericano che, come il sudafricano, non ha sviluppato sentimenti di vendetta durante la sua tremenda prigionia. E anzi confida al biografo Miguel Ángel Campodónico che lo «disturbano quelli che fanno a gara col torturometro. È stata dura perché non sono stato abbastanza veloce, perciò mi acciuffarono. Ma la vita biologica è così piena di trappole tanto incommensurabili, tanto tragiche e dolorose che ciò che ho passato io in confronto è una pavada». Che, per quanto stupefacente, si traduce proprio con «sciocchezza ». D’altronde il prigioniero della cella accanto Mauricio Rosencof, che mi ha raccontato una quantità di cose complimentose su Pepe («Solo chi non lo conosce è sorpreso dalla sua sobrietà», altra cosa dai loden di Monti), dovendo definire il suo decennio a Punta Carretas ha scelto il termine «interessante», per aggiungere subito che è contento di vedere proseguire «il cammino di giustizia sociale per cui lottavano ». Con limiti sin troppo evidenti – era lotta armata – la scuola dei Tupamaros sembra non aver partorito leader rancorosi. Eleuterio Fernández Huidobro, altro internato di Punta Carretas e oggi ministro della Difesa, della forza del presidente fornisce un riassunto assoluto: «Pepe pensa come Aristotele ma parla come Juan Pueblo», il nostro Mario Rossi. Se Mario Rossi parlasse come Pasolini.
Tra gli «ostaggi» di allora qualcuno, come Julio Marenales, lo rimprovera di essersi ammorbidito («Le idee che aveva qualche anno fa le tiene, suppongo, nel congelatore»). Però poi riconosce che governare è altra cosa dalla guerriglia. E Frente Amplio, la coalizione nelle cui file è stato eletto, è un nome che presuppone il compromesso. È famoso anche per questo, Mujica, per saper parlare con l’opposizione. «Si scusò in pubblico con gli insegnanti per aver detto, basandosi su dati sbagliati, che lavoravano poco» ricorda Alfredo Garcia, direttore del settimanale Voces e autore di un libro-intervista con il presidente: «È una cosa che i politici non fanno mai». Lui, «l’uomo più senza cravatta dell’universo», come l’ha definito Josefina Licitra in uno stupendo articolo sulla rivista argentina Orsai, non ha problemi di ego. È, dice un dirigente che ha a che fare con lui ogni giorno, un formidabile «lanciatore di palle»: «Lancia un’idea, guarda l’effetto che fa, ascolta le critiche, la migliora o la rimangia. Ha un’onestà intellettuale mai vista». Che traspare. Gli chiedo del progetto di legalizzare la marijuana, facendola gestire allo Stato a un dollaro al grammo, che ha suscitato apprensione nel Paese: «È un tentativo. Odio la droga, ma il narcotraffico è, se possibile, ancora più pericoloso. La guerra fatta sin qui non ha funzionato. Proviamo questa strada e guardiamo come va». Ha già liberalizzato l’aborto, le nozze gay e fatto una legge avanzatissima sulla donazione di organi. Piccolo Paese, grande laboratorio.
Finita la lunga chiacchiera passiamo nella cucina delle dimensioni di quella d’uno studente fuorisede. Ci offre un rum venezuelano, con il ghiaccio che stacca sotto l’acqua del rubinetto. Viene in mente Paolo Conte: «Ha la genialità di uno Schiaffino/ ma religiosamente tocca il pane/ e guarda le sue stelle uruguaiane. Ah, Sudamerica ». Spesso a Natale lo invita a pranzo Juan Jose Balocco, imprenditore agricolo («Gli presto le mie celle frigorifere per metterci i gladioli che coltiva e regala agli amici»), ma soprattutto un vicino di casa cui chiede consigli su come potenziare il settore. Ci va con Lucía Topolansky, la compagna di sempre, ex guerrigliera e oggi terza carica del Paese. Una storia che ha resistito a tutto, comprese le rispettive prigionie. Sempre dalla biografia: «Dal momento che eravamo due che procedevano da soli, siamo finiti insieme». E ancora: «Quando uno si approssima ai cinquant’anni pensa che una compagna debba essere una buona cuoca. L’amore è fatto di molta amicizia, di cose che facilitano la convivenza». Sembra una notazione prosaica, che appanna la statura romantica dell’uomo. A me suona come l’ennesima cosa terribilmente sincera profferita da un sopravvissuto. Dà l’idea, chissà se è vero, di dire esattamente quel che pensa senza preoccuparsi delle conseguenze. D’altronde, quali conseguenze si devono temere a 78 anni? «Ma che carajo di soldi deve accumulare uno alla mia età?» aveva sbottato, al cronista (inesorabilmente risucchiato nel campo gravitazionale nazionale, con i settantasette di Berlusconi) che insisteva sull’apparente mistero del suo francescanesimo. Non ha figli, questo aiuta. Ma non credo che nel suo caso farebbe troppa differenza.
Perché romantico resta, eccome. Negli anni più bui, le memorie del sottosuolo, si era molto appassionato di antropologia: «Erano i tempi del socialismo scientifico, dell’ambizione di capire quale fosse il disco fisso dell’animale uomo. Che resta, essenzialmente, un animale utopico, nel senso che ha sempre bisogno di qualcosa in cui credere, perché se non ci si innamora di qualcosa non ha senso alzarsi tutte le mattine e continuare a lottare». Ecco, lui nello sprofondo della cella, non ha mai smesso di essere innamorato della lotta contro l’ingiustizia sociale: «Sono uscito e ho ricominciato il giorno dopo». Lo dice senza enfasi, era la sua natura («Ogni anno che passa sento sempre più l’importanza del mio lato naturale rispetto a quello razionale »), l’innamoramento necessario di cui non riusciva a fare a meno. Perciò deplora le passioni tristi, per oggetti del desiderio da quattro soldi. Tipo quelli deliziosi ma frivolissimi di cui va pazzo Monocle, il mensile di culto che l’ha laureato «miglior presidente del mondo». L’ennesimo paradosso. Dice: se sprecassimo meno (anche solo energie) e ci concentrassimo su cose serie staremmo tutti meglio. Nella definizione di spreco rientrano senz’altro le scarpe da tennis che costano come la spesa mensile di un uruguaiano medio. O le ultimissime meraviglie Apple apparecchiate nell’immacolato negozietto dentro Punta Carretas («Mujica? Non l’ho votato, sono di destra. Ma è uno onesto » concede una commessa). È anche immune da un’altra dipendenza che affligge da sempre i politici sudamericani: «il virus della rielezione». Tra un anno si vota, gol a porta vuota, ma ha annunciato che non correrà. Vuole aprire una scuola di agraria. La terra, è sempre lì che ritorna. A coltivare i gladioli e gli altri amori, mate, tango e Micaela, la cagnetta a tre zampe. Un politico dalla schiena diritta che non ha affatto paura di chinarla.
Riccardo Staglianò