Danilo Taino, Sette 8/11/2013, 8 novembre 2013
L’EX RE DI NEW YORK, ASPIRANTE PRIMO CITTADINO GLOBALE
Michael Bloomberg portava i calzoncini da jogging. Era la seconda metà degli Anni Novanta, un pomeriggio: appuntamento all’hotel Four Seasons di Milano. Arrivò nel bar un po’ in ritardo. Direttamente dal parco, era andato a correre: maglietta e sneakers. Sorrideva. Non era ancora in politica, era “solo” il fondatore e proprietario di una delle maggiori imprese di distribuzione di notizie finanziarie del pianeta. Probabilmente non aveva nemmeno pensato di diventare sindaco di New York. Si sedette, chiese dell’acqua ed entrò subito nel merito: mi domandò se trovassi più affascinanti le donne di Milano o quelle di Roma. Era appena arrivato dalla capitale: a differenza di Stendhal, la sua preferenza era per le signore milanesi. Ma molto leggera: pare che a Roma si fosse trovato meravigliosamente.
Una decina d’anni dopo, quando già era sindaco, durante una conferenza a Manhattan, pensai che fosse diventato politicamente più corretto, come tutti i politici: non parlerà più di donne, mi dissi. Soprattutto ora che vuole sradicare da New York il fumo e le cattive abitudini alimentari, si vorrà presentare come un eroe moralista tutto d’un pezzo. Errore. In 12 anni da sindaco, Bloomberg non si è mai piegato alle esigenze della politica, è rimasto l’uomo che fa le cose a modo suo. Meglio ancora: è stato uno dei migliori sindaci della prima città d’America dei tempi recenti proprio perché non ha seguito regole a cui altri sarebbero stati costretti a inchinarsi: invece di adeguarsi a New York ha adeguato New York a se stesso. Al fatto di essere un miliardario, all’avere una logica da imprenditore, al volere sorprendere, al non vergognarsi della propria ricchezza e delle proprie idee, anche discutibili. Al più, ha virato, lui che partiva dall’essere conservatore, verso posizioni più liberal su temi come il controllo delle armi, la lotta all’obesità, la politica dell’immigrazione.
Il fatto è che Bloomberg finisce il 31 dicembre il suo terzo mandato con una città rinata, più popolosa, più verde, più ricca. Ma anche socialmente più divisa. E in buona misura stanca della performance alla quale l’ha sottoposta con le sue iniziative. Sa di avere fatto bene come pochi politici (lui non lo è) avrebbero potuto: sembra non sappia però come usare il capitale di consenso e di esperienza che ha accumulato. Dopo le elezioni a sindaco di New York di martedì scorso, alle quali non poteva più presentarsi, la domanda è più che mai: cosa farà ora Michael Bloomberg? Di certo, ha già chiarito, non tornerà a guidare la Bloomberg Inc: negli anni da sindaco, durante i quali non se n’è occupato, i manager che l’hanno guidata gli hanno consentito di vedere aumentare la sua fortuna da quattro a oltre 30 miliardi di euro. Ma farà altro: ne sentiremo parlare parecchio.
La “domestic partner”. La forza del sindaco Bloomberg è stata la sua capacità di volare sopra i partiti e la politica rissosa di New York. Di avere idee non di destra o di sinistra. Ereditò la metropoli (da Rudolph Giuliani, altro grande sindaco) poche settimane dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001: scioccata, spaventata, incerta e con un bilancio in rosso per cinque miliardi di dollari. Era uno dei momenti più duri per la città e lui, come primo atto, lanciò la crociata contro il fumo nei bar e nei ristoranti. Crociata antifumo? Esatto. Non era essenziale ma lo riteneva giusto. Aveva visto i numeri: molti newyorkesi morivano di sigarette. Fu il primo passo che diede il tono alla dozzina di anni successivi: partire dai problemi e dai dati, che per Bloomberg sono fondamentali. Una lezione che i sindaci italiani potrebbero studiare: quando si guida una città, si può fare a meno della destra e della sinistra, dei repubblicani e dei democratici. Si gestisce. Bene. In modo innovativo. Con ambizione. In fondo, è come condurre un consorzio di imprese che deve fare funzionare l’acqua, la raccolta dei rifiuti, il traffico, le case pubbliche, i parchi e i giardini, le scuole, la polizia e i pompieri, l’assistenza. Dove sta scritto che il partito tale o tal altro gestiscano meglio ogni singolo settore di quanto non farebbero l’Ibm, la Microsoft, le imprese private, Michael Bloomberg? Da nessuna parte. Quel che conta è non essere irreggimentati. Non dovendo fare il politico a 360 gradi, il sindaco non ha dunque mai dovuto fingere di essere del tutto politicamente corretto, di non avere mantenuto un occhio per la dolce vita.
Bloomberg non è sposato. Meglio: è divorziato da Susan Brown, dalla quale ha avuto due figlie, Emma, 34 anni, e Georgina, 30. Oggi ha una domestic partner: cioè non ha contratto matrimonio e nemmeno un’unione civile ma vive in una casa dell’Upper East Side di Manhattan con Diana Taylor, la ex sovrintendente delle banche nello Stato di New York, 58 anni, 13 meno di lui. Non è un capofamiglia tradizionale, di quelli che vogliono costruire imperi perenni: per Emma e Georgina ha istituito dei fondi di denaro, poi ha comprato case (a Londra, in Colorado, a Bermuda oltre che a New York) e opere d’arte: la stragrande maggioranza dei 31 miliardi di dollari che costituiscono il suo patrimonio (previsione al prossimo 1° gennaio quando smetterà di essere sindaco) ha però promesso che verrà spesa in beneficenza entro il tempo di vita delle sue figlie. «Voglio fare cose che nessun altro sta facendo», ha dichiarato di recente. Qui sta la chiave per capire come sarà il prossimo Michael Bloomberg e se, dopo i 12 anni di Mayor of New York, sta per nascere il Bloombergism.
Il pilastro del nuovo movimento, se mai prenderà vita, è quello che egli stesso ha spiegato durante un viaggio recente in Europa parlando di filantropia, della quale vuole essere un protagonista globale. Con essa, «puoi fare cose che la gente non pensa siano appropriate o convenzionali se si fanno con il denaro pubblico», ha detto. «Se non avessimo avuto la filantropia privata, non avremmo mai avuto l’Impressionismo, per esempio. Nessuno avrebbe pensato che quella fosse arte, la quale oggi comanda prezzi dieci volte quelli degli Old Masters».
Promotore di concorsi tra città. L’attività filantropica di Bloomberg è già in pieno svolgimento: attraverso una rete di fondazioni, quest’anno spenderà 400 milioni di dollari. Nei giorni scorsi, il sindaco è stato in Messico per sostenere una campagna a favore della tassa sulle bevande gassate, un balzello anti-obesità che ha tentato, senza successo, di introdurre anche a New York. Certo che il Messico ha problemi ben maggiori: la droga, per dire, la criminalità organizzata, anche l’acqua inquinata nelle aree rurali. Bloomberg però ritiene che un intervento del genere potrebbe creare un clima positivo, indirizzare verso un miglioramento della vita anche in altri ambiti: dopo l’introduzione del divieto di fumo nei locali pubblici (ora anche nei parchi), l’aspettativa di vita dei newyorkesi è cresciuta di tre anni in un decennio. Più concretamente, Bloomberg ha speso oltre cento milioni di dollari per produrre una zanzara geneticamente modificata che potrebbe aiutare nella lotta alla malaria. Altrettanto ha investito per eradicare la poliomielite in Paesi come Afghanistan, Pakistan, Nigeria. È intervenuto in progetti sociali in Vietnam e in Africa. In America finanzia i politici che si candidano su piattaforme favorevoli al controllo delle armi e ai matrimoni gay. Si impegna per la riforma delle leggi sull’immigrazione negli Stati Uniti. In molti Stati americani appoggia riforme scolastiche locali.
Alla City Hall di Londra, in settembre, ha lanciato un concorso tra le città europee: cinque milioni di euro a quella che avanzerà l’idea più innovativa per migliorare il governo delle metropoli. È in quell’occasione – alla presenza dei sindaci di Londra, Boris Johnson, di Varsavia, Hanna Gronkiewicz-Waltz, e di Firenze, Matteo Renzi – che ha parlato della filantropia che può arrivare dove lo Stato non può e ha chiesto «idee coraggiose che mettano radici in Europa e si diffondano nel mondo». Proprio il pianeta sembra essere la nuova dimensione che Bloomberg vuole affrontare dopo la dozzina di anni a New York. “Sindaco del mondo”, ha scritto di recente il settimanale americano Time.
Risultati, nella sua città, ne ha ottenuti. La criminalità, già in crollo con Giuliani, è scesa ancora. Brooklyn è rinata. Harlem sta sempre meglio. L’obiettivo di dare a ogni newyorkese un parco a non più di venti minuti di passeggiata si sta realizzando. La qualità delle scuole della metropoli è migliorata. La politica della casa ha ottenuto risultati. Il bilancio è attorno al pareggio. Ed è stato lanciato il progetto che darà un segno al futuro della città e ne farà uno dei cuori hi-tech americani: il campus da due miliardi di dollari che sarà creato sulla Roosevelt Island, nell’East River, dalla Cornell University per sviluppare studi di scienze applicate. Non che tutto gli funzioni. A sinistra lo accusano di essere ricco e a favore dei ricchi di Wall Street. A destra ne criticano la mentalità paternalista e l’impostazione assistenziale da Stato-tata. Ma Bloomberg prende per buono quel che si è sempre detto, che se uno ce la fa a New York ce la può fare ovunque: e ovunque è proprio il luogo dove Mike Bloomberg vuole essere dal prossimo 1° gennaio. Altro che Milano o Roma.